Recensioni

Recensione Recensione di Call of Juarez: Bound in Blood

Recensione di Call of Juarez: Bound in Blood di Console Tribe

di: Redazione
Quando nel 2007 Techland presentò il suo sparatutto
ambientato nel “Wild West” il consenso fu più che generale. La
software house polacca era riuscita a sviluppare un prodotto con una
grafica all’avanguardia e un gameplay solido, condito con uno
script che riprendeva uomini e situazioni dalla migliore tradizione
western. C’eravamo trovati di fronte due uomini e una
quantità assurda di fuorilegge lanciati a bomba verso un tesoro
azteco attraverso le sconfinate e polverose distese della frontiera
americana. Due anni dopo è venuto il momento di sapere come la
vicenda s’è messa in moto, quali eventi si nascondono
dietro il famigerato medaglione azteco, e soprattutto è tempo di
raccontare la storia di Ray McCall e di suo fratello Thomas.





Bound in blood



Se c’è una cosa peggiore del combattere una guerra,
è combatterla dalla parte sbagliata. Nel massacro fratricida tra
Stati del sud e Stati del nord i fratelli McCall si troveranno a
combattere dal lato che storicamente verrà sconfitto: l’esercito
degli Stati Confederati del sud. Entrambi si sono sempre distinti come
ottimi soldati fino a diventare l’orgoglio del colonnello Barnsby. Si
sono sempre battuti come puma per cercare di raggiungere l’indipendenza
dagli Stati del nord. Tom e Ray amano la propria nazione ma ancor di
più amano la propria famiglia. Scegliere tra le due non è
cosa facile ma al richiamo della madre in pericolo accorreranno senza
esitazione. Nonostante il rischio dell’impiccagione per la diserzione,
i due lasceranno l’esercito per cercare di salvare il proprio ranch e
sottrarre dalla grinfie nordiste il fratellino seminarista e l’anziana
genitrice. Il destino avverso vuole che al grande sacrificio
corrisponda una piccola ricompensa: la madre morta, il ranch in fiamme
e solo William salvo.

Perseguitati dall’inarrestabile Barnsby che li vuole punire con la
morte, ai tre fratelli non resta che nascondersi nelle terre selvagge
del West per cercare di rifarsi una vita. Tra le scazzottate e le
scorribande, il ritorno al passato per i McCall sarebbe impossibile se
l’incontro con il bandito Mendoza non riaccendesse la speranza: nei
pressi di Juarez si nasconde un tesoro azteco, tanto grande da chiudere
per sempre i conti con la vita di stenti. Ray e Tom, oramai cani
impazziti, non riusciranno a resistere al “richiamo di Juarez”
trascinandosi in una spirale di morte e disperazione.





Dust and loneliness



Lande desolate, case diroccate, pietra e legno sono gli ingredienti
principali della frontiera americana e gli sviluppatori americani si
sono impegnati per darcene una perfetta riproduzione. C’è
tutto quello che avete visto nei film di John Ford: villaggi indiani,
boschi selvaggi, miniere e strade polverose. L’ultima
incarnazione del Chrome Engine si comporta egregiamente, riuscendo a
restituire un colpo d’occhio a tratti devastante. Sulla lunga
distanza il paesaggio è perfettamente caratterizzato da una
profondità di campo elevata e da una precisione dei dettagli
come pochi titoli. Fermarsi a guardare lo sfondo delle terre selvagge
del West rimane uno dei grandi pregi di questo titolo.

Per assurdo il motore grafico soffre sulla media e corta distanza con
un effetto di bad clipping massivo con l’erba e le piante che
lentamente crescono sotto i nostri piedi e un filtro aliasing a dir
poco ballerino. Gli interni in generale risultano ben curati e
perfettamente in stile, caratterizzati pure da un’estrema attenzione
per i particolari. Peccato per la scarsa interazione ambientale e la
massiccia compenetrazione poligonale che trasformano le location in un
perfetto esempio dell’adagio “guardare ma non toccare”. Stesse
disattenzioni si ritrovano nella gestione delle luci e negli effetti
particellari che si limitano a suggerire l’idea di scoppi e pulviscolo.
Nonostante le imprecisioni, l’orchestrazione generale restituisce la
sensazione cruciale del Wild West: la solitudine. Le terre selvagge
sono costantemente battute da folate di vento che alzano turbini di
polvere, il sole alto e penetrante brucia queste terre dimenticate da
Dio, alzando un leggero tremolio che ferisce gli occhi. L’impressione
d’essere persi a combattere per la propria vita, anche contro le forze
della natura, ci accompagnerà per tutta l’esperienza di gioco.



Padroni incontrastati di questo mondo sono Tom e Ray. Precisi, in stile
e fortemente riconoscibili sono il pezzo forte del titolo. Costruiti
sullo stereotipo dell’uomo duro e selvaggio, corredati da un
arsenale che proviene direttamente da ricerche storiche, i fratelli
McCall sono due che lasciano il segno, capaci di imprimersi nella
memoria e ferire con il loro sarcasmo. Peccato per la totale assenza
del motion capture facciale che ci avrebbe permesso di partecipare
maggiormente alle vicende del titolo e alle posture fin troppo
statiche. Le animazioni in generale non sono la punta di diamante del
titolo, mancando di una realizzazione almeno negli standard e peccando
di eccessiva semplificazione. Pecche che comunque non inficiano la
restituzione di una buona riproduzione della vita del West: chiunque
incontrerete sarà in grado di darvi la sensazione di essersi
piagato o al sole o al bancone di un fetido saloon.





Quando un uomo con la pistola…



Il gameplay è quanto di più solido Techland potesse
offrirci. Lo sparatutto polacco riesce a restituire le emozioni
altalenanti del genere western con una precisione disarmante. Tesi ed
intensi duelli si alterneranno a sparatorie adrenaliniche con pistole
fumanti. Le novità introdotte per rimanere in stile sono
comunque poggiate su una base molto solida che ci permette di definire Call of Juarez
un buon sparatutto. La struttura a capitoli ci lancerà in una
serie di missioni dalla progressione abbastanza lineare. Potremo
scegliere se affrontare il capitolo con Tom o con Ray, che ci
porterà ad un approccio agli scontri abbastanza diversificato. I
due fratelli sono esponenti delle due scuole classiche: Thomas è
agile e votato al combattimento sulla distanza mentre Ray è
capace di sostenere maggiormente i danni e utilizza un approccio
più ravvicinato con l’avversario. Il level design cerca di
bilanciarsi tra immersione e funzionalità con un risultato il
più delle volte troppo lineare: molti gli spot per entrare in
copertura ma pochi quelli realmente utili. L’aggancio automatico
alle superfici ci permetterà un peeking abbastanza semplice e
intuitivo, gestito dall’analogico destro. Il più delle volte gli
scontri si risolveranno in una guerra di posizione: fermi dietro il
nostro nascondiglio non dovremmo far altro che aspettare la povera IA.
I banditi non tenteranno assolutamente manovre di aggiramento o azioni
aggressive ma si limiteranno ad attraversare il nostro campo visivo con
una certa regolarità, quasi fosse uno “shooter-on-rail”. La
staticità cronica è accentuata dalla mancanza di melee
attack e da tempi di ricarica di alcune armi cosi lunghi da scongiurare
ogni tipo di banzai attack.

Per fortuna non mancano momenti d’azione pura nei quali i nostri
pistoleri faranno cantare il grilletto. I due disertori, dopo un numero
sufficiente di uccisioni, possono entrare in “concentration mode”, che
appena attivata ci permetterà di freddare con stile un gruppetto
di nemici. Il suo utilizzo tattico è pressoché nullo
visto che un timer di 60 secondi ci costringerà a sprecarla il
più delle volte con un numero esiguo di nemici o in situazioni
non critiche. Rimane comunque un ottimo tentativo di restituire con
immediatezza la rapidità della pistola più veloce del
West.

Non potevano mancare i duelli: il capo della cricca va sempre freddato
con stile. I Techland sono riusciti a configurare in modo non troppo
macchinoso un sistema capace di mettere in campo nervi saldi e
tempismo. Ripresi di spalle e focalizzati sulla mano del nostro
pistolero, con l’analogico sinistro potremo inquadrare il nostro
avversario mentre con il destro si controllerà
l’estrazione della pistola. Pochi istanti e la musica che
c’ha accompagnato finora si blocca alcuni interminabili secondi
ed è il tocco della campana, BANG! La pistola fuma e un altro
cadavere giace sul selciato. Questo è lo schema che più o
meno ripeterete con crescente difficoltà numerose volte nel
gioco.

A rendere la pietanza ancora più succosa c’è una
certa componente free-roaming che ci permetterà di effettuare
una serie di missioni secondarie e raggranellare qualche soldo. In ogni
atto ci saranno momenti di riposo dalla main story che ci porteranno a
prestare servizio come Bounty killer oppure a dare una mano ai poveri
indifesi che spessissimo si troveranno in balia dei banditi. Tra una
missione e l’altra avremo la possibilità di esplorare il
“wild wide West”, scorrazzando sul nostro cavallo preferito e di tanto
in tanto fare un salto all’armeria per spendere i soldi appena
guadagnati. E’ un modo sia per spezzare il ritmo lineare
dell’intera avventura sia per fare del sano upgrade
dell’arsenale.





BANG! BANG!



Il comparto sonoro è assolutamente altalenante. Se da una parte
i ragazzi di Techland sono riusciti a selezionare una colonna sonora
degna di nota per tutta la story mode, alternando pezzi country
d’atmosfera con momenti più duri e riproducendo alla
perfezione gli scoppi pirotecnici delle armi del tempo,
dall’altra ci siamo trovati di fronte ad un doppiaggio pessimo,
spesso inficiato da una scadente sincronizzazione e con voci piatte e
senza vita.





Sfida all’OK Corral



Bound in Blood fa del multiplayer una delle sue risorse
fondamentali, costruendo sulla cooperazione degli utenti il nucleo
forte dell’esperienza di gioco. Le cinque modalità
proposte supportano fino a 12 giocatori che potranno scontrarsi in
mappe come quella dell’Ok Corral, direttamente ispirate
all’evento storico. Le classi si segnalano per numero e per la
buona diversificazione.





…quell’uomo è un uomo morto



Call of Juarez: Bound in Blood è un titolo validissimo
inficiato solo da piccole disattenzioni e da una longevità non
esaltante. Le circa 7 ore della modalità storia possono essere
aumentate dall’ottima componente online e da un replay delle
missioni con un personaggio alternativo. E’ un titolo che per le
sue meccaniche intuitive, per l’immediatezza degli scontri e la
bellissima riproduzione dei paesaggi desertici si propone come una
valida scelta anche per chi non ha un grosso feeling con la frontiera
americana.