Intervista

Quattro chiacchiere con… Yu Suzuki

di: Simone Cantini

Nel corso della mia pluridecennale militanza a Lucca Comics and Games, mi è capitato di conoscere o anche semplicemente sfiorare un gran numero di personalità legate al mondo dei videogiochi e dei fumetti. Se lascio scorrere la memoria, trovo nomi del calibro di Hirohiko Araki, Leiji Matsumoto, Hajime Tabata, Zerocalcare, Leonardo Ortolani e molti altri. Poche altre volte, però, mi sono trovato veramente in soggezione come in occasione dell’incontro con il grande Yu Suzuki, un nome che mi accompagna oramai da anni, sin da quando videogiocavo senza chiedermi quale figura si celasse dietro quel mare di pixel colorati. Intervistarlo per Console Tribe assieme a la_saku, grazie alla preziosa collaborazione di Labcom (nella figura di Antonio Sciacqua), è stato un onore ed un piacere, visto anche il modo in cui il leggendario designer si è pian piano rilassato domanda dopo domanda.

Quattro chiacchiere con Yu Suzuki: passato, presente e futuro del videogioco

Console Tribe: In un periodo storico in cui il mercato giapponese sembra voler scimmiottare l’attitudine al gaming di stampo occidentale, con un Final Fantasy XVI che ne rappresenta l’episodio più lampante, come vede questa sorta di snaturamento che sta attraversando l’industria nipponica? Non pensa che sia una forzatura abbandonare tali radici?

Yu Suzuki: Personalmente preferirei che questa identità così peculiare non venisse smarrita affatto. Si tratta però di un processo inevitabile in ottica di puro business, data la necessità di poter raggiungere la più ampia platea possibile e massimizzare il guadagno. Il desiderio di qualsiasi compagnia, comprese quelle giapponesi, è che un videogioco abbia successo e che venga fruito dal maggior numero di persone, una situazione che trovo assolutamente logica. Ritengo comunque che sia i lavori occidentali che quelli giapponesi abbiano i loro indubbi pregi personali, penso quindi che sarebbe giusto che le due identità venissero valorizzate e preservate.

CT: In un mondo in cui i grandi studi occidentali investono capitali ingenti nello sviluppo videoludico, come nel caso di Rockstar ed altri, ritiene che ci possa essere ancora spazio per l’industria giapponese, da sempre vista come più artigianale e meno incline a spese sontuose?

YS: Credo che l’identità giapponese rimarrà sempre all’interno della nostra industria, come dimostra il lavoro svolto da Nintendo, nonostante sia una compagnia così grande. Ci sarà sempre spazio per la nostra particolare concezione di videogioco.

CT: Cosa può dirci dell’ipotetico e vociferato prequel di Shenmue, anche in ottica di avvicinamento alla serie per coloro che non hanno potuto apprezzarla a tempo debito?

YS: (sorride) Vorrei davvero fare qualcosa a tal proposito, qualora ci fosse la possibilità di realizzarlo. Per il momento, però, si tratta solo di un’idea, una sorta di work in progress.

CT: Da visionario e creatore di numerose serie di successo, come si immagina il futuro dei videogiochi?

YS: Da ora in poi le piattaforme su cui giocare sono destinate a crescere sempre di più, con i dispositivi mobile ed i visori VR che andranno a conquistare maggiore spazio, così come i sensori di input saranno sempre più fedeli alla realtà. Il mio desiderio è quello di poter far compiere al mio personaggio una qualsiasi azione semplicemente pensando al movimento da fare. Mi immagino anche un sensore piccolo come un cerotto da indossare, così da poter semplificare ancor di più le possibilità di gioco.

CT: Come è nata questa sua passione per il mondo del gaming? Cosa l’ha spinto a diventare il designer che è oggi?

YS: In realtà quando sono entrato in SEGA non pensavo proprio di entrare a far parte del settore del design, quindi mi scuso se infrango questa idea così romantica della mia genesi (ride). Il mio contatto con il mondo del videogioco ha però origine nel periodo universitario, quando mi sono avvicinato all’Apple II, dove giravano giochi come Mistery House e Ultima, produzioni che mi hanno profondamente colpito.

CT: C’è un videogioco non sviluppato da lei che, da creativo, avrebbe voluto aver realizzare personalmente?

YS: In realtà no, ma se proprio devo dare una risposta mi sento di dire Animal Crossing, per lo meno come concetto. O magari un qualcosa legato all’agricoltura o all’allevamento di animali. A tal proposito confesso di avere un sogno nel cassetto: vorrei sviluppare un gioco in cui tutto si svolga lentamente, senza pressioni o stress per il giocatore. Un titolo in cui per veder crescere una pianta sia necessario attendere realmente il tempo necessario, così da dare a tutti la possibilità di sperimentare la coltivazione delle verdure. Lo chiamerei Super Simulatore di Agricoltura (ride). Potremmo cominciare a coltivare un ortaggio semplice come il daikon, per poi passare poco alla volta a prodotti più difficili da far crescere bene.

CT: Cosa ne pensa della frammentazione dell’offerta ludica, che porta a spezzettare la fruizione di un titolo per mezzo di microtransazioni o DLC?

YS: Penso che sia giusto che esista una simile situazione, perché il mondo del videogioco è talmente grande e vario che ritengo sia corretto fornire all’utenza la possibilità di comperare quello che più preferisce, avere tutto e subito. In questo mondo ci deve essere spazio per tutte le tipologie di approccio alla commercializzazione e alla fruizione.

Saremmo rimasti ore a parlare con Yu Suzuki, visto anche il modo in cui si è poco a poco aperto dopo i primi attimi di rigidità tipicamente nipponica. Una disponibilità dimostrata anche quando il tempo a nostra disposizione stava per scadere, con Suzuki che si è divertito a parlare a ruota libera e a divagare per il semplice piacere di raccontarsi. Un momento che, a livello puramente personale, non potrò che ricordare con affetto ed un pizzico di orgoglio.