Recensione Metal Gear Solid V: The Phantom Pain
Metal Gear Solid V: The Phantom Pain è arrivato nei negozi il primo settembre e finalmente, siamo pronti a fornirvi il rapporto che il nostro Gianmarco “St Jimmy” Forcella ci ha passato sul titolo in questione!
di: Gianmarco ForcellaMetal Gear Solid V: The Phantom Pain è arrivato nei negozi il primo settembre e finalmente, siamo pronti a fornirvi il rapporto che il nostro Gianmarco “St Jimmy” Forcella ci ha passato sul titolo in questione!
Aftermath: Big Boss ReMIX
Dopo gli eventi di Metal Gear Solid: Ground Zeroes Big Boss cade in coma, che lo mette fuori gioco per ben nove anni. Il risveglio del soldato avviene nel 1984, in un ospedale dell’isola di Cipro sotto assedio da forze nemiche non ben specificate: Snake è quindi costretto, tramite l’aiuto di una misteriosa figura, a scappare con tutte le sue forze dalla struttura e cercare rifugio. Durante la fuga, arriverà in suo soccorso un vecchio compagno d’armi e rivale, Revolver Ocelot (impersonato e doppiato da Troy Baker) che lo condurrà nel centro operativo dei Diamond Dogs, ente fondato da Kazuhira Miller e da Ocelot stesso durante i nove anni di assenza del loro capo.
Dopo questo prologo, molto intenso e della durata di un’ora, il giocatore viene catapultato nella nuova vita di Big Boss, intento ad operare tra l’Afghanistan e l’Africa per salvare prima Miller e poi per guadagnare sempre più potere per scagliare la sua vendetta contro colui che ha distrutto il suo esercito privato nove anni fa, Skull Face.
Durante questo lungo cammino, che porterà Snake a tramutarsi nel “Venom Snake” dei primissimi Metal Gear, assisteremo al mutamento profondo delle sue emozioni e di come gli eventi lo porteranno a diventare ciò che poi è diventato.
Il dramma psicologico vissuto da Snake, Miller e compagni è, come ogni opera di Kojima, ben esposto: i personaggi hanno un’ottima connotazione psicologica (soprattutto il lento passaggio che porterà Snake a diventare Venom) e la storia è ben sviluppata sebbene, con tutte le missioni che il gioco propone, sia un po’ faticosa da seguire.
Tactical Espionage Action
La meccanica madre di tutto Metal Gear Solid è sempre una: lo stealth. La chiave del gioco è cercare di non passare inosservati, completare gli obiettivi principali e secondari che la missione ci impone e filarsela prima che sia troppo tardi. A supporto di Snake, viene sempre fornita una pistola con dei tranquillanti che, una volta sparati, porteranno all’addormentarsi della vittima. Ma Big Boss, oltre ad essere molto forte nel combattimento corpo a corpo (tecniche di “CQC” nel mondo di Metal Gear), sa essere molto “persuasivo”: avvicinandosi senza farsi scoprire, può infatti prendere di sorpresa le guardie nemiche e costringerle a farsi rivelare alcune informazioni riservate.
Ma The Phantom Pain non si basa solo su questo: è il primo gioco della saga dove, incredibile ma vero, il protagonista principale agirà con una spalla. Il primo compagno d’armi di cui faremo conoscenza sarà D-Horse, per poi passare a D-Dog (per rilevare i nemici nelle vicinanze), D-Walker ed infine, opzionale da arruolare, Quiet.
Esattamente però, cosa sta ad indicare la D che precede il nome di alcuni personaggi spalla? All’interno di MGSV: The Phantom Pain, sono presenti tre macro aree di gioco: Afghanistan ed Africa, sulle quali torneremo tra un po’, e la base dei Diamond Dogs, ovvero la “Mother Base”. Questa roccaforte è stata costruita da Miller sul modello di quella che era in loro possesso prima dell’attacco dell’unità XOF in MGS: Ground Zeroes ed è un’area di gioco che, oltre ad offrire interazione con il personale e diverse missioni secondarie, può essere tranquillamente ingrandita costruendo, una volta raggiunte le richieste per poterlo fare, piattaforme che andranno ad ospitare unità altamente specializzate. I Diamond Dogs hanno infatti moltissime sezioni, che aiuteranno il giocatore durante l’esecuzione delle missioni: l’unità di spionaggio fornirà informazioni circa la presenza o meno dei nemici nell’area di gioco, l’unità di ricerca e sviluppo permetterà la creazione di nuovi equipaggiamenti per sé stessi o per le spalle, l’unità di combattimento permetterà di usare altri personaggi nelle missioni al di fuori di Big Boss e così via.
I Diamond Dogs e lo spazio a disposizione nel mare delle Seychelles però non sono solo questo ed è proprio per questo motivo che, ad un certo punto della storia, si sbloccherà la possibilità di creare le FOB (“Forwarding Operating Base”) che serviranno come ampliamento del raggio d’azione della Mother Base. Attenzione però: fare ciò vi esporrà agli attacchi di altri giocatori nella componente online e l’eventuale distruzione di una di queste FOB comporterà alla perdita di ingenti risorse (soprattutto, non da confondere con Metal Gear Online, uscito il 6 ottobre con una patch dedicata). Eventualmente, per reclutare qualche soldato basterà semplicemente… stordirlo. No, non ci siamo sbagliati: basta stordire con il CQC o una pistola con i tranquillanti un soldato per poi recuperarlo con ilFulton, un dispositivo speciale che permette il recupero aereo di persone ed oggetti di varia stazza.
Spostandosi in altre zone del mondo, il giocatore ha la possibilità di esplorare l’open world dell’Africa Centrale e dell’Afghanistan a proprio piacimento. Il punto è che per la maggiore, tolto qualche soldato da uccidere o reclutare, si presenta essenzialmente come un mondo vuoto, in cui il motore grafico ha pochi elementi da gestire, al massimo qualche insediamento ed animale selvatico.
Una cosa che, infine, il giocatore non dovrebbe mai sottovalutare, è quella di tornare di tanto in tanto alla Mother Base: farlo aumenta il morale delle truppe, il che evita lo scatenarsi di risse e l’abbassamento di livello delle unità.
La potenza della volpe
Il Fox Engine è sicuramente un motore molto potente: riesce a dare un’ottima risoluzione grafica del paesaggio ma anche dei personaggi che gestisce (sebbene, come accennavamo precedentemente, ne gestisce veramente pochi in contemporanea). A dimostrazione di questo ed anche della sua potenza, viene in aiuto una comparazione della resa grafica che si ha sulle console di vecchia e nuova generazione: nonostante, logicamente, il dettaglio sia maggiore su Xbox One e PlayStation 4, Xbox 360 e PlayStation 3 con questo engine i ragazzi del Team Kojima riescono a rimanere al passo con i tempi, potendo vantare di un’esperienza visiva eccezionale.
Lasciando da parte la colonna sonora che, come in ogni Metal Gear risulta sempre un’ottima scelta, ci soffermiamo un attimo sulla scelta del cast del titolo, in particolare quella di Troy Baker (Delsin in inFamous: Second Son) per Ocelot e Kiefer Sutherland come nuovo doppiatore di Big Boss: la scelta di questi attori, in particolare per il primo, è a nostro parere più che azzeccata, con un Baker che si presta perfettamente nell’interpretazione di quello che sarà poi uno dei nemici principali di Solid Snake. Kiefer invece ha alle sue spalle un pesante retaggio: fin dall’annuncio nel cast, i fan hanno pesantemente criticato la scelta di Konami nel rimpiazzare David Hayter, ovvero colui che ha prestato la sua voce ai precedenti Snake. Nonostante il doppiaggio offerto da Kiefer sia comunque discreto, la mancanza di Hayter si fa sentire.
Il piacere dell’Apocalisse
The Phantom Pain è un gioco singolare. Davvero. In molti anni di attività nel settore è stato il primo titolo che ho dovuto finire con una percentuale molto alta (70%) per poter avere un quadro completo di quest’ultima opera firmata Hideo Kojima. Le aspettative per questo nuovo capitolo di Metal Gear Solid sono state molto alte: da una parte, Konami e la Kojima Productions dovevano accontentare i fan rimasti molto delusi per la commercializzazione stand-alone di Ground Zeroes mentre dall’altra si sarebbe finalmente riallacciata la storia di Big Boss con i primi due Metal Gear, andando così ad eliminare molti punti interrogativi rimasti sulla trama.
Beh, questo non è successo: anzi, The Phantom Pain instilla ancora più domande nel giocatore. A cominciare da Big Boss stesso: è un personaggio “assolutamente statico”, che non parla quasi mai ed è quindi difficile da seguire nel suo cambiamento graduale verso il malvagio Big Boss che compare in Outer Heaven e Zanzibar Land. Un’occasione sprecata ad esempio, per mostrare il lento maturare dei suoi pensieri è dato da uno dei diversi faccia a faccia che si avranno con Skull Face, uno dei nemici principali: questo darà inizio ad un monologo (perché di questo stiamo parlando) in cui Snake sarebbe perfettamente potuto intervenire ed in cui invece non apre bocca. Il tutto viene poi riempito da quattro, lunghissimi, minuti di musica che cercano di mettere una toppa in una scena che, di per sé, è stata rovinata e poteva essere sfruttata narrativamente meglio.
E proprio a proposito di narrativa: precedentemente è stato detto che il gioco è molto difficile da seguire a livello narrativo. La storia in sé poi presenta moltissime lacune. Per fare un esempio: il finale mostra al giocatore un “segreto” (il segreto di Pulcinella poi, dato che vengono forniti moltissimi indizi su cosa possa essere durante il gameplay ed uno anche molto tangibile e sempre vicino nel CCA…) che non è assolutamente contestualizzato. Viene letteralmente buttato lì a caso, non c’è nessuna connessione tra la missione precedente e il finale. E questo fatto è molto evidenziato a partire dalla seconda metà del gioco, come se molte cose fossero state tagliate di proposito o per mancanza di tempo, come la “fantomatica” missione 51: nell’edizione limitata è infatti incluso un DVD in cui viene mostrato questa parte di gioco che dovrebbe spiegare un altro buco narrativo su dei personaggi che si incontrano durante la storia. Se poi qualcuno sperava in qualche collegamento con i vari Metal Gear usciti, il massimo di cui si deve accontentare è qualche citazione di Ground Zeroes e Peace Walker: viene citato più volte il progetto dei “Bambini Terribili” (quindi la nascita di Solid, Liquid e Solidus) senza però darne una giusta contestualizzazione, il finale fa intravedere un possibile collegamento con Metal Gear 1 che non viene assolutamente approfondito e ciò avrebbe portato allo scioglimento di moltissimi nodi della trama. Insomma The Phantom Pain, almeno dal punto di vista della narrativa,sembra proprio un’opera tagliata a metà, vuoi per mancanza di tempo o per rivalsa di Kojima nei confronti di Konami, ma ciò che giunge all’utente è un prodotto che non fa altro che lasciarsi aperte molte porte per possibili sequel.
Per non parlare delle cassette.
Se in molti si sono lamentati di Metal Gear Solid 4: Guns of The Patriots per l’eccessiva lunghezza delle cutscene, The Phantom Pain presenta una quantità spropositata di audiocassette in cui nell’80% dei casi vengono forniti elementi chiave per poter capire bene la trama.
Certo, un gioco non è solo la trama che viene raccontata ma anche sceneggiatura e gameplay (che sono perfetti in quest’ultima opera di Kojima) ma se non vengono equibilanciati da un’ottima trama, come si può presentare un buon prodotto?