Cinema Recensione

The Holdovers

di: Andy Reevieny

Lezioni di vita recita l’ennesimo campato per aria adattamento italiano di titolo originario perchè la traduzione letterale, casomai, è i rimanenti, residui… dunque già così si partirebbe male, ma qui appunto si tratta di resistere. E resisteremo!

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Annuario scolastico

1970: la guerra del Vietnam, oltre a quella cosìddetta Fredda, è pienamente in corso. Questo però ci interessa relativamente, a latere, perchè la  nostra storia si ambienta nel New England, nei pressi di Boston, in una prestigiosa scuola privata maschile, la Barton Academy, frequentata, manco a dirlo, da rampolli delle facoltose famiglie che la finanziano.

Protagonisti sono un gruppo di ragazzi adolescenti allora che, in vista delle festività natalizie per cui dovrebbero essere in libera uscita, in congedo verso le famiglie di origine, si vedono negare tutto ciò per più o meno sopravvenuti cambi di programma, dovuti in parte anche al Prof. Paul Hunham (Paul Giamatti), severissimo insegnante di storia (civiltà antiche come ribadisce a più riprese) dell’istituto che, prospettando bocciature a buona parte della classe, e quindi anche preclusioni e mancate ammissioni ai college più prestigiosi, già presuppone feste rovinate agli alunni. I nostri, con su tutti Angus Tully (Dominic Sessa) sono quindi costretti inizialmente a passare le feste a recuperare la materia con il dispotico docente a scuola chiusa, col freddo inverno e la neve sullo sfondo. Niente riscaldamento, chiuso per l’occasione. Addirittura palestra inaccessibile causa lavori in corso. Unici adulti presenti, oltre al summenzionato Prof. residente, Mary Lamb (Da’Vine Joy Randolph), cuoca della scuola e madre inconsolabile di figlio ex studente della Barton caduto in battaglia in Vietnam.

L’attimo: fu gente

Da questa premessa, senza aggiungere altro se non che la narrazione si sviluppa e si incentra sui tre personaggi summenzionati, sembrerebbe un film cupo, pedante, roba che il finale del cult intramontabile L’attimo fuggente di Peter Weir, parrebbe un cinepanettone confronto.

Niente affatto. Stavolta si rivola alti che più forse non si potrebbe chiedere, specie al cinema statunitense. Uno strabiliante Paul Giamatti su tutti al solito, svetta dopo aver collaborato con Payne già in Sideways , e regala un personaggio destinato a rimanere iconico nel tempo ai livelli del Prof. John Keating eternato dal compianto Robin Williams, e Dominic Sessa all’esordio folgorante, a sua volta un compendio generazionale dei ragazzi di allora nati nell’immediato secondo dopoguerra, seguiti a ruota dalla irresistibile, umana, empatica Randolph.

Non nobis solum nati sumus

Non siamo nati solo per noi, citando Cicerone. The Holdovers è un film da guardare e riguardare. Alexander Payne, già regista di  A proposito di Schmidt, Paradiso amaro, Nebraska… firma con questo forse il suo film più bello e importante in carriera, al netto ovviamente della attenzione mediatica riservatagli a livello di botteghino e soprattutto premi che consentono una nuova distribuzione nelle sale nostrane, a mesi di distanza dall’uscita oltreoceano. Un film umano, come poco altro altro visto di recente, con una ricostruzione storica meticolosa, a partire dalle grafiche, dalle luci usate, compresa colonna sonora con brani d’epoca e non usati diegeticamente (When winter comes de Artie Shaw and His Orchestra) ed extra diegeticamente (il brano di apertura Silver joy di Damien Jurado) che fa immergere anche noi europei del 2024 in un mondo e un tempo lontani. Questo grazie alla scrittura dei personaggi e delle interpretazioni che difficilmente si possono dimenticare. Vediamo i nostri disvelarsi, rimanere soli e indifesi, e infine riconoscersi, ritrovarsi, riunirsi nelle loro solitudini, miserie. Il mondo è mutamento, la vita è percezione citando Democrito. Un film dunque d’altri tempi, eppure così moderno.