Digitale vs fisico: il parassita che dà del coglione all’onesta formichina
di: Donato MarchisielloSi sa, oggi giorno con lo stra-dominio dei social, il comportamento medio di tante persone è quello di tentare, disperatamente, di distinguersi. Spesso e volentieri, non cercando una via maestra “sana” (ovvero, impegnarsi faticosamente in qualcosa di concreto, utile e dai risultati incontrovertibilmente positivi per la comunità ). Ma, al contrario, abbassandosi ad ogni “scemità” (il dialetto, spesso, è più ficcante dell’italiano), ogni idiozia, ogni forzato comportamento utile nel creare divisione, malcontento e “bad looking” tanto per far parlare di sé.
Ma veniamo ai fatti: negli scorsi giorni, un noto reseller di chiavi digitali (di cui non faremo il nome, né chi legge ha bisogno di saperlo: non serve glorificare ancor di più il parassitismo), ha avuto la fantastica idea di perculare milioni e milioni di persone che optano per gli acquisti fisici di videogame, definendoli zombie e abitanti retrogradi del medioevo (che, per inciso, non fu affatto un’epoca di arretratezza. Forse, l’entourage di quel sito dovrebbe spendere più tempo ad informarsi e, probabilmente, dedicarsi meno alla carriera circense). Della serie: parassiti che danno del coglione ad un’onesta formichina, come da titolo.
Per chi ignorasse di cosa stiamo parlando, va fatta una doverosa premessa: esiste un cosidetto mercato “grigio”, scarsamente regolamentato perché fortemente decentralizzato, privo o quasi di controlli, retto da siti oscuri di cui, tendenzialmente, non si conoscono le facce dei proprietari, dov’è possibile acquistare chiavi di gioco a prezzi nettamente inferiori rispetto ai rivenditori autorizzati (che, al contrario, fanno realmente e coerentemente guadagnare gli sviluppatori e sostengono il mercato e l’industria). Ora, questa ensemble di comici improvvisati e senza volto, che un po’ tutti abbiamo frequentato almeno una volta presi dalle classiche frenesie spendacciose, esiste parallelamente ai canali ufficiali come alternativa ai metodi di acquisto tradizionali.
Un’alternativa, poco tollerata e spesso (giustamente) ostracizzata dalle vie ufficiali per tante ragioni. Dunque, se non si è esattamente dei “campioni della luce”, in un mondo ideale fatto di persone che superano ampiamente il quoziente intellettivo di una sedia, si dovrebbe star fermi e smettere di compiere azioni lucrose ma “grigie”. Vuoi ammantarti di grigiore per un facile guadagno? Male, ma non sarebbe la prima volta, purtroppo. Ma, quanto meno, andrebbe evitata come la peste l’opportunità di prender per il culo chi da te non si serve, per svariate ragioni: altrimenti, al contrario, andranno sciolti i cani della ragione, in pieno stile Montgomery Burns.
Dunque, chi compra giochi fisici è uno zombie e pure retrogrado, secondo un manipolo di “illuminati” mercanti grigi. E chi dai reseller compra solo giochi digitali (che, a dirla tutta, in questa faccenda sono silenti vittime sacrificali)? Una polpetta, fetida e venefica. Per l’industria, per i giocatori “normali”, per i venditori ufficiali. Ma sin troppo buona e facile da masticare per i loschi figuri che sguazzano nel grigiore dei loro altrettanto dubbi traffici. E le ragioni sono sin troppo semplici da comprendere: innanzitutto, nessun reseller metterebbe la mano sul fuoco sull’origine delle proprie chiavi di gioco in vendita, non solo da un punto di vista legale ma anche e sopratutto etico. I “migliori”, in un uso della parola che sta al confine tra la stand-up comedy e la depressione intellettuale, sfruttano le chiavi attivabili globalmente e vendute nei mercati del secondo, terzo e quarto mondo (dunque, predando su degrado, guerre e situazioni sociali terribili che producono, al contrario, diverse “opportunità” economiche). In una sorta di piranha-capitalismo zelota, sfruttando la differenza di potere d’acquisto delle monete e dei mercati “forti”, contrapposti a monete e mercati “deboli”.
Ecco che, ad esempio, una chiave acquistata a pochi spicci sul mercato africano, potrebbe esser poi rivenduta anche a venti o trenta volte il suo prezzo originale sui mercati forti, come quello europeo o nord-americano. Andando, al contempo, ad avvelenare il proverbiale pozzo e a lasciare a bocca asciutta aziende che, comunque vada, hanno tutte le carte in regola per poter stare sul mercato (specialmente, da un punto di vista legale, nei paesi dove tutto costa molto di più ed è più ferreamente regolamentato). E i peggiori, tra questi mercanti grigi? Beh, esistono dei marketplace virtuali, completamente sregolati e dai controlli che rasentano lo zero, dove spesso le chiavi messe in vendite sono frutto di operazioni illegali, tra carte di credito rubate, chiavi di gioco ottenute in modo “oscuro”, cracking di server ecc. E quanti di loro, pur vendendo ovunque, poi paghino realmente le tasse o abbiano una struttura societaria consona e regolamentata, non è dato saperlo. Tiriamo ad indovinare? Una nettissima minoranza.
Di già basterebbe quanto sin qui detto per dimostrare, ampiamente, che codesti figuri grigi dovrebbero continuare a parassitare avendo almeno la decenza di tacere e non imporre visioni del mondo, spacciate per scherzose (ma con fini “imprenditoriali”). Ma il dado è ormai tratto e non si può non porre una annosa questione: digitale è meglio che fisico? La risposta, in realtà, non c’è in modo assoluto, ma è parziale ed è lontana dall’immaginario comune che vuole il primo più conveniente e meno impattante del secondo, specialmente a livello ambientale. E se il problema dell’uso e consumo (e scarso riciclo) della plastica è sicuramente un’annosa questione, co-protagonista assieme all’uso smodato di energie non rinnovabili delle attuali, tetre condizioni del nostro habitat, quella dell’alimentazione dei server, dove risiedono i dati digitali globali, non è da meno.
Come riportato dal Corriere della Sera, “un solo server produce in un anno da 1 a 5 tonnellate di CO2 equivalente, e ogni gigabyte scambiato su internet emette da 28 a 63 g di CO2 equivalente”. Ma non è solo questo: secondo uno studio della Royal Society di fine 2020, riportato da Agi, in un anno un utente medio che utilizza la posta elettronica per lavoro può arrivare a emettere 135 chili di CO2. Per quello studio le tecnologie digitali contribuiscono tra l’1,4% e il 5,9% alle emissioni globali. Quindi, non proprio ad impatto zero. L’Osservatorio ESG Karma Metrix (progetto dell’agenzia di digital marketing Avantgrade.com, che misura la carbon footprint delle pagine Web), i cui dati sono stati resi noti in occasione della Giornata Mondiale dell’Ambiente, ci dice che i nostri microcomportamenti quotidiani fanno sì che Facebook, Amazon, Apple, Netflix e Google in 1 anno abbiano consumato 49,7 Milioni di MWh quasi come la Romania (50) e più di Portogallo e Grecia.
Quindi, no: il digitale non è “amico dell’ambiente”. Senza contare che, a differenza dell’odiosa plastica, sicuramente diffusa in quantità esorbitanti, le emissioni di CO2 non possono esser “riciclate”.
In secundis, un gioco fisico è di mia proprietà, sempre e comunque. Il disco di gioco è sempre accessibile e può esser anche riutilizzato come semplice “oggetto da collezione” nel caso in cui si tratti di un prodotto, comunque, online ma estinto (prendiamo come esempio il recente caso di Concord, per dirne una). Della serie, lo compro, lo posso rivendere perché è mio, sia che il gioco “esista” sia che il disco sia divenuto tecnicamente inutilizzabile. Un gioco digitale, fattivamente, no. Basta citare il “caso-scuola” del settore, quello di The Crew, “ritirato” letteralmente e in modo unilaterale dalle librerie dei giocatori che lo hanno acquistato (e che ha prodotto diversi, “morali” grattacapi ad Ubisoft).
Oppure sottolineare come Steam, dopo una legge che andrà in vigore in California e che impone ai seller digitali di chiarificare se l’utente possieda o meno il prodotto che sta acquistando, abbia recentemente inserito un avviso ai giocatori intenti ad acquistare prodotti sul suo store specificando che, in realtà, non acquisiscono la proprietà di nulla ma solo delle licenze d’uso. Licenze che, nei lunghissimi contratti con gli utenti che ormai, svogliatamente, accettiamo fideisticamente senza leggerne un rigo uno, possono esser “strappate” unilateralmente senza nessuno tipo di sanzione per publisher o sviluppatori. Un discorso che non cambia di una virgola, anche se si considera l’acquisto dai succitati reseller, spesso anche poco inclini a rimborsi e nascosti dietro servizi clienti non sempre amichevoli e tempestivi.
Se si considera che, a “cappello” di quanto sin qui detto, non sempre il digitale ha un prezzo migliore del fisico, la domanda sorge spontanea: qual è l’acquisto più intelligente? Qual è quello più onesto intellettualmente? Saremo pure zombie, ma ci vediamo lungo. E cerchiamo anche di non far ingrassare i parassiti.