Trust – Abbiate fiducia in Danny Boyle
di: ZamveleSerialmente parlando, il 2018 non è cominciato nei migliori dei modi (anche umanamente non è che sia stato una meraviglia, ma quello vi auguro, sia una cosa solo mia). Di nuove serie degne di nota non ne sono cominciate, e anche di ritorni da strapparsi i capelli non se ne sono visti, tranne qualche rara eccezione. Quindi, l’arrivo di Trust, almeno per me, è stato percepito come una boccata d’aria dopo l’apnea. Voglio essere chiaro: non è un capolavoro, ha grossi difetti, ma ha una personalità così forte e una totale mancanza di misura che suppliscono a ogni mancanza. (Comunque, ho mentito. Di serie nuova che merita assurdamente una ci sta: Il Cacciatore su Rai2 – sì, esatto, RAI2 – vale ogni minuto speso a guardarlo)
Pochi mesi fa, è uscito al cinema Tutti i soldi del mondo di Ridley Scott che metteva in scena più o meno la stessa storia di Trust, ovvero il rapimento di Paul Getty III. Il grosso rischio per la serie era quindi quello di ritrovarsi a raccontare una storia che era stata mostrata appena qualche mese fa. In pratica un po’ l’effetto di quando l’Asylum produce un film fatto con due lire, simile a un blockbuster appena uscito nei cinema. Vivaddio, Trust supera ampiamente questo ostacolo.
Innanzitutto perché dietro Trust ci sta Danny “Trainspotting” Boyle, che ha diretto i primi tre episodi, andati finora in onda. Questo gli assicura un’identità già abbastanza precisa e forte da essere facilmente riconoscibile. Troviamo, infatti, tutti i vezzi del Boyle regista cinematografico: inquadrature matte, montaggio sotto cocaina, intere sequenze che sono dei videoclip. Il ritmo, per tutte le prime tre puntate, non si abbassa un secondo. Il che è piuttosto sorprendente perché è un ritmo che si tiene su unicamente grazie al montaggio e alla regia. La scrittura, infatti, si avvita su se stessa e ritornando, nell’arco di queste prime tre ore, ossessivamente sugli stessi fatti.
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Se infatti ho saltato a pie’ pari il racconto della trama non è perché non mi piace scriverla (oddio, un po’ anche per quello), ma perché fondamentalmente finora Trust sta tutto nella frase che ho detto prima: “ovvero il rapimento di Paul Getty III”. In Italia, negli anni ’70. E’ questo il difetto maggiore della serie finora: fregarsene piuttosto chiaramente della narrazione. Si ha l’impressione che la storia sia portata avanti non tanto dalla trama o dai personaggi, quanto dall’esuberanza visiva delle sequenze. Sinceramente non so se sia perché comunque la storia del rapimento di Getty è così famosa da reggersi da sola (come sembra suggerire esplicitamente il finale della seconda puntata) o per una qualche mancanza in fase di scrittura. Fatto sta che per i vari personaggi si prova veramente poca empatia, e il fatto che siano o dei ricchi stronzi o dei ricchi idioti non aiuta.
Finora, a proposito di personaggi, ogni puntata è stata letteralmente divorata da un attore, lasciandogli volutamente spazio e tempo in scena. La prima da Donald Sutherland, che impersona il capo-famiglia Getty, con tanto di harem (per capirci, è quello che in Tutti i soldi del mondo doveva essere Kevin Spacey e poi fu Christopher Plummer); la seconda da Brendan Fraser, ve lo ricordate?, e già vederlo imbolsito fare una specie di sceriffo, per me è un motivo già più che valido per guardarsi ‘sta serie ringraziando Danny “Sequenza del treno in Slumdog Millionaire” Boyle per questo regalo; la terza da Luca Marinelli. Perché, sì, dato che stiamo in Italia, sono stati scelti attori italiani. In particolare, Giuseppe Battiston (grazie di nuovo, Danny “Quel film di Cristo che è Sunshine” Boyle) e Luca Marinelli. Marinelli che ormai è così iconico che è riconoscibile anche con mezzo volto coperto da una bandana e che risulta perfettamente credibile mentre recita in siciliano (dopo il toscano di Tutti i santi giorni, il romano di Non essere cattivo, il genovese romanaccio di Principe Libero). Finora Hillary Swank, che interpreta la madre del ragazzino rapito, è stata ai margini, ma insomma, ci stanno pochi dubbi che anche lei sia pronta a mangiarsi ‘sto mondo e quell’altro.
Insomma, ci sta Danny “Steve Jobs aveva i suoi momenti” Boyle, la Roma degli anni ’70, la droga e montaggio fico e un sacco matto. Cosa chiedere di più?