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Recensione Wolfenstein: The New Order

Era il lontano (nemmeno troppo) 1992 quando id Software pubblicò Wolfenstein 3D.
Un gioco dall'animo completamente differente dai suoi predecessori, usciti per Apple II e ideati da Silas Warner, ma che posarono insieme a Doom, pubblicato l'anno successivo, le fondamenta sulle quali è stato edificato il First Person Shooter. Un genere oggi indubbiamente inflazionato e dotato di una componente multigiocatore così forte da mettere in ombra parzialmente o del tutto il gioco in singolo.
Titanfall docet.
Eppure questo Wolfenstein: The New Order non sposa le odierne logiche di mercato, più fedele al suo retaggio che agli attuali standard del genere. Vediamo perché.

di: Luca "RukaManni" Manni

Era il lontano (nemmeno troppo) 1992 quando id Software pubblicò Wolfenstein 3D.
Un gioco dall’animo completamente differente dai suoi predecessori, usciti per Apple II e ideati da Silas Warner, ma che posarono insieme a Doom, pubblicato l’anno successivo, le fondamenta sulle quali è stato edificato il First Person Shooter. Un genere oggi indubbiamente inflazionato e dotato di una componente multigiocatore così forte da mettere in ombra parzialmente o del tutto il gioco in singolo.
Titanfall docet.
Eppure questo Wolfenstein: The New Order non sposa le odierne logiche di mercato, più fedele al suo retaggio che agli attuali standard del genere.
Merito (o forse colpa, dipende dai punti di vista) dell’ottimo lavoro svolto da Machine Games, software house svedese composta in buona parte dagli ex membri fondatori di Starbreeze Studios.
Nonostante i diversi slittamenti legati alla data di uscita (inizialmente prevista per l’ultimo trimestre dello scorso anno), il gioco fu annunciato per la prima volta nel maggio del 2013 dal publisher Bethesda Softworks, anche se non tutti sanno che a darne per prima la notizia dello sviluppo fu un’agenzia di stampa italiana, Playnews, nel febbraio del medesimo anno.
Un brand storico, quello di Wolfenstein, e sicuramente complicato da gestire, ma da cui Machine Games ha saputo trarre ottimi frutti.

E se…

i Nazisti avessero vinto la guerra? Se a sganciare le bombe atomiche durante il secondo conflitto mondiale fossero stati i tedeschi e non gli americani, cosa sarebbe successo?
Wolfenstein: The New Order si modella e prende vita proprio da qui, una delle ucronie più inquietanti di sempre.
È il 1946 quanto il capitano B.J. Blazkowicz tenta l’assalto, insieme a un manipolo di soldati, al centro nevralgico dell’impero nazista. Venti minuti di gioco piuttosto insipidi che si concludono con un clamoroso fallimento e con il buon vecchio soldato americano colpito da una scheggia di metallo al cranio.
Ma è da qui in poi che Wolfenstein: The New order comincia a mostrare quel che l’impero nazista avrebbe potuto essere e che, fortunatamente, non è mai stato.
Trascorrono quattordici anni. Un lungo periodo in cui Blazkowicz è costretto su una sedia a rotelle in stato vegetativo in un manicomio polacco a causa di quella scheggia rimastagli nella “cozza”, come lui suole chiamarla.
Il mondo è cambiato, e tutti si sono arresi alla potenza germanica.
New York ha subito un bombardamento nucleare, la Russia è stata sconfitta e l’Italia fedele alleata nel conflitto, è stata invasa e sottomessa.
Il rock di Jimi Hendrix non è mai esisto, i Beatles cantano in tedesco e la musica non è che uno strumento di propaganda nazista. I vicini si denunciano a vicenda, ricordando nemmeno troppo vagamente “1984”, il classico di George Orwell, e a sventolare sulla superficie lunare non è la bandiera americana, bensì la svastica nazista.
Le immagini che vengono rappresentate sono crude, a volte estremamente mortificanti, come il bambino in fasce strappato di mano a un deportato in un campo di concentramento e tenuto sospeso a mezz’aria per un piede da un gerarca nazista mentre colpisce il genitore con un frustino.
Purtroppo (o fortunatamente) si tratta di brevi intermezzi che raramente vengono approfonditi nel corso del gioco ma che adempiono comunque al loro scopo: dipingere la crudeltà di un impero che non riconosce la vita come un diritto di tutti ma come un privilegio di pochi.
In tutto questo, Blazkowicz è solo al suo risveglio, smarrito e lontano quattordici anni da quel mondo in guerra che ricordava e per cui combatteva.
Il capitano impara a conoscere gli eventi trascorsi attraverso i ritagli di giornale sparsi qua e là e i dialoghi con i ritrovati membri di una resistenza sull’orlo della resa, forti di un doppiaggio italiano eccezionale e capaci di donare a Wolfenstein: The New Order, ulteriore spessore narrativo.
Viceversa, sul fronte del gameplay, quello che si ha davanti è un FPS classico, tra i cui difetti va sicuramente annoverato lo scarso numero di armi a disposizione. Questa pochezza viene parzialmente camuffata con l’ausilio di un duplice escamotage: da una parte grazie al passaggio temporale dall’anno 1946 al 1960, periodo in cui l’arsenale bellico nazista si è evoluto (per lo più dal punto di vista estetico) e dall’altra grazie alla doppia modalità di fuoco di ciascuna arma, non disponibile da subito ma sbloccabile attraverso degli upgrade capaci di trasformare, ad esempio, un semplice fucile d’assalto in un lanciarazzi. Inoltre, la possibilità di equipaggiare contemporaneamente due armi dello stesso tipo sopperisce alla mancanza di un vero e proprio equipaggiamento pesante. Wolfenstein: The New Order mette a disposizione pistole, granate, fucili di diverso tipo e un tagliatore laser dalle molteplici funzioni (chiamato LaserKraftWerk o più semplicemente LKW) senza contare il classico coltello, ottimo se si vuole adottare un approccio stealth.
In linea di massima, infatti, è possibile affrontare ogni missione in maniera differente a seconda del proprio stile di gioco, per esempio si può arrivare a destinazione evitando il percorso prestabilito e sfruttando i numerosi passaggi segreti che permettono di aggirare i nemici o di raggiungere punti strategici dai quali aprire il fuoco senza il rischio di essere colpiti.
Una scelta che viene incentivata anche dal particolare sistema di sviluppo del personaggio, che premia lo stile adottato con dei potenziamenti permanenti che prendono il nome di “talenti”. Ad esempio, accoltellare venticinque nemici senza essere scoperti ridurrà il rumore generato dai passi di Blazkowicz, oppure ucciderne quindici con una pistola da dietro un riparo incrementerà il numero delle munizioni trasportabili per la suddetta arma.
Purtroppo la grande libertà concessa al giocatore non va di pari passo con l’I.A. dell’esercito nazista che, al contrario, non risulta all’altezza delle aspettative.
Non solo i soldati presentano grosse difficoltà nell’individuare Blazkowicz, anche se ben visibile a quest’ultimi, ma non è raro vederli sporgere senza alcuna logica dai propri ripari durante uno scontro a fuoco, o abbandonare le proprie postazioni per venire crivellati di colpi. In compenso il numero e la buona varietà di tipologie di nemici richiederà un approccio cauto sfruttando le coperture e l’ambiente circostante, in particolar modo ai livelli più alti di difficoltà.
Semplici nazisti e supersoldati si alternano a cani e a macchine corazzate, frutto dell’alta ingegneria tedesca sviluppata nel corso di quattordici anni di egemonia sull’intero pianeta, anche se, purtroppo, si tratta per lo più di nemici ordinari e mai di veri e propri boss. La loro caratterizzazione resta comunque impeccabile.
L’elevata rigiocabilità, invece, nonostante la totale mancanza di una modalità multigiocatore, è garantita dall’enorme quantità di collezionabili presenti all’interno di ciascun livello, tra cui spiccano particolari documenti che, una volta raccolti, consentono di decriptare diversi messaggi, denominati “codici enigma” che sbloccano modalità aggiuntive per il gioco in singolo.

(S)corri che ti passa

Al di là dei 60 fps al secondo garantiti dalle versioni next-gen di Wolfenstein: The New Order, il gioco non mostra un netto stacco tra questa e la precedente generazione videoludica, nonostante l’utilizzo dell’ id Tech 5, il potente motore grafico sviluppato da id Software.
Ciascuna mappa di gioco, in compenso, risultata estremamente varia e dettagliata anche se, a causa di una cattiva gestione delle fonti di luce, si creano delle vere e proprie zone buie all’interno di alcune di esse e nelle quali è praticamente impossibile vedere qualcosa se non portando al massimo il contrasto delle immagini. La presenza di alcuni bug, inoltre, rende a volte l’esperienza di gioco frustrante anche se, fortunatamente si tratta solo di casi sporadici.
Il comparto audio dal canto suo, si limita a riprodurre i suoni ambientali, eccezion fatta per qualche breve accenno musicale. A stupire maggiormente, invece, è il doppiaggio, che colpisce per la sua intensità sia nei dialoghi in lingua italiana, che in quelli tra i nazisti in lingua tedesca.

Conclusione

Wolfenstein: The New Order non è il classico FPS di questa generazione.
La mancanza di una modalità multigiocatore può sembrare qualcosa di inconcepibile al giorno d’oggi ma si tratta di una scelta voluta da parte di Machine Games e necessaria per focalizzare gli sforzi sulla realizzazione di un’esperienza in singolo particolareggiata.
Con l’attenzione rivolta sul comparto narrativo, Wolfenstein riesce ad immergere il giocatore in una tetra ucronia dove la Germania nazista controlla il mondo e l’efferatezza dei suoi soldati non viene condannata, bensì giustificata.
E tutto ciò prende ispirazione da un conflitto che nemmeno settant’anni fa ha segnato il corso della storia.