Recensione The Evil Within 2
di: Simone CantiniPur portandosi in dote tutti i difetti e le ingenuità tipiche delle nuove IP, è innegabile come The Evil Within abbia riscaldato i cuori di tutti gli orfani dell’horror targato Shinji Mikami. L’avventura di Sebastian Castellanos, difatti, pur rinunciando a particolari guizzi innovativi, è stata capace di riportare felicemente alla mente i fasti e le atmosfere dei vecchi Resident Evil, riuscendo nell’impresa di coniugare un gameplay fortemente old school con tematiche e suggestioni visive sicuramente interessanti. Forti di questo successo, Mikami e i suoi Tango Gameworks hanno pensato bene di dare il giusto seguito alle avventure del detective di Crimson City, pronto a compiere un nuovo ed allucinante viaggio all’interno dello STEM in questo The Evil Within 2.
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Cancellare il passato
Quella di Sebastian è una figura alquanto complessa, figlia di un passato straziante che lo ha portato ad annegare nell’alcool i propri dolorosi ricordi: l’avventura all’interno del manicomio di Beacon, difatti, non ha fatto altro che acuire il senso di colpa causato dallo perdita della figlia Lily, morta in seguito all’incendio dell’abitazione dei Castellanos. La realtà, però, quando si tratta di The Evil Within 2, non è mai così ben definita e lineare come sembra: intercettato da Kidman all’interno di un bar, Sebastian viene a sapere che l’adorata figlia è in realtà ancora viva, ed è attualmente in mano alla Mobius Corporation, la società responsabile della costruzione dello STEM. Nucleo portante di questa diabolica tecnologia, la coscienza di Lily ha finito però per smarrirsi all’interno dell’onirico universo creato dalla macchina, mettendone così in pericolo la stabilità. Spetterà quindi al povero Sebastian il compito di rintracciarla all’interno della fittizia cittadina di Union, in quella che si trasformerà ben presto in una folle corsa per la sopravvivenza, che lo porterà ad affrontare vecchi e nuovi fantasmi di un passato che non vuole saperne di lasciarlo andare. Questa, in sintesi e priva di spoiler significativi, la narrativa che ci accompagnerà in The Evil Within 2, un riuscito collage di elementi non sempre originalissimi, ma tenuti comunque saldamente assieme da John Johanas, il nuovo director del gioco chiamato a raccogliere la pesante eredità di Mikami (qua presente nelle vesti di solo produttore esecutivo). L’avvicendamento in cabina di regia è evidente sin dalle prime battute, a causa della netta sterzata subita dal modus narrandi, ora decisamente meno criptico e sibillino grazie ad un abbondante uso di efficaci cinematiche ed un numero più elevato di dialoghi. Un incedere sicuramente differente, ma non per questo peggiore del passato: la trama, difatti, rimane sempre interessante e complice la caratterizzazione di Sebastian e dei suoi avversari, tutto si lascia seguire con estremo interesse. Si tratta semplicemente di un ulteriore punto di vista che, a seconda dei gusti personali, potrà più o meno piacere, ma che alla luce dei fatti viene davvero difficile criticare in maniera assoluta.
Ampliare l’orrore
A rimanere in parte invariato è, invece, il gameplay di The Evil Within 2 che recupera tutti gli elementi che hanno fatto la fortuna del capitolo precedente, a partire dalla classica visuale in terza persona resa celebre da Resident Evil 4. I canoni dei moderni survival horror sono ampiamente rispettati, ma la vera novità del titolo Tango Gameworks è da identificare nell’inserimento di alcune sezioni aperte, utili per recuperare armi, munizioni, documenti e risorse per il crafting e lo sviluppo delle abilità di Sebastian, in un modo che richiama in maniera palese (sia per struttura che per elementi stilistici) gli aspetti esplorativi che hanno fatto la fortuna dei primi due Silent Hill, di cui umilmente reputo la nuova IP di Mikami l’erede più prossimo. Le aree più vaste di Union sono servite, inoltre, per introdurre una manciata di missioni secondarie totalmente opzionali, che si inseriscono comunque molto bene all’interno della narrativa generale, pur non rappresentandone un obbligatorio e fuorviante diversivo. Ovviamente saranno, però, gli ambienti claustrofobici ed oppressivi a costituire l’ossatura portante di The Evil Within 2, anche se da un punto di vista puramente disturbante è palese come sia andata in parte perduta la follia rappresentativa tipica dei designer giapponesi: il nuovo mondo creato dallo STEM rimane sempre brutale e distorto, così come gli attori che si muovono al suo interno, ma non sono riusciti a superare il senso di marcia oppressione che trasudava dalle pareti del Beacon. A far registrare decisi passi in avanti è stato, invece, il bilanciamento generale della progressione, adesso molto più omogeneo e convincente: l’alternanza tra momenti fortemente adrenalinici ed altri più distesi (per quanto lo possano essere in un survival) è ora bilanciata alla perfezione, relegando fortunatamente al passato gli squilibri ludici che si erano avvertiti nella seconda metà del predecessore. La stessa gestione delle risorse disponibili è stata ampiamente rivista, rendendo in parte più semplice l’esperienza, ma non così tanto da poterci permettere di fare tranquillamente fuoco su tutto quello che si muove. Ed in questo senso fa piacere vedere come le meccaniche stealth siano state finalmente implementate a dovere, finendo per divenire molto spesso una valida alternativa all’uso indiscriminato del piombo, grazie principalmente ad un level design che per primo fa di tutto per incentivare un simile approccio.
Piccoli passi avanti
L’ottimizzazione tecnica non era certo uno dei capisaldi della prima avventura di Sebastian Castellanos, ma grazie alla revisione dello STEM Engine (una versione modificata dell’id Tech) le performance di The Evil Within 2 sono fortunatamente superiori al passato. Pur non facendo gridare al miracolo in quanto a stabilità del frame rate, talvolta invero ballerino, le prestazioni generali si attestano su livelli più che sufficienti. Ottimo il sistema di illuminazione, per me uno degli elementi più importanti di qualsiasi survival, così come il comparto audio (tutto il gioco è interamente localizzato in italiano). Da registrare qualche rallentamento nel caricamento di alcune texture, ma in generale si tratta di un fenomeno dalla portata tutto sommato marginale. In linea con le aspettative la longevita: a livello normale ho impiegato poco meno di 16 ore per arrivare ai titoli di coda, recuperando una buona percentuale di collezionabili e portando a termine tutte le missioni secondarie.
The Evil Within 2 sceglie di giocare semplice, limitando al minimo le finezze tecnico/ludiche e puntando unicamente sulla solidità dell’esperienza proposta. Innova pochissimo il genere, scegliendo semplicemente di riproporre in chiave moderna elementi che hanno fatto la storia dei survival horror, riuscendo comunque a confezionare un prodotto godibilissimo e molto divertente. Anche se leggermente più semplice del predecessore, il nuovo lavoro di Tango Gameworks può contare su di una progressione molto più bilanciata e convincente, che va a correggere tutte le ingenuità della sua precedente iterazione. Ecco, magari non sarà molto felice di sentirmelo dire, ma dopo questa scorribanda ad Union mi auguro di rivedere presto il nostro Sebastian alle prese con qualche altro incubo distorto.