Recensioni

Recensione State of Mind

di: Simone Cantini

Immaginare il futuro non è certo semplice, complice il gran numero di produzioni fantascientifiche che, a partire dallo scorso secolo, hanno iniziato a far fantasticare in merito al mondo di domani in numerosi ambiti, siano questi cinematografici, letterari o videoludici. Eppure la voglia di costruire un ipotetico tempo prossimo è sempre molto forte, come dimostra State of Mind, nuova avventura firmata dai ragazzi di Daedalic che, pur pescando a piene mani dal calderone di idee di cui parlavo solo poche righe fa, è riuscita a tratteggiare in maniera intrigante un piovoso e turbolento 2048.

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Chi sono io?

Richard Nolan vive a Berlino ed è un giornalista che lavora per The Voice, il principale network del mondo conosciuto. Avverso alla tecnologia, al punto da criticarla aspramente all’interno dei suoi articoli, si barcamena tra il lavoro ed una famiglia che sembra sfuggirgli sempre più di mano. Il rapporto con la moglie Tracy, ex modella tossicodipendente sfigurata in seguito ad un incidente, ed il piccolo figlio James, è ormai in crisi profonda, logorato anche da una relazione a distanza che il nostro Richard ha intrapreso con la giovane collega newyorkese Lydia. Incapace di prendere una decisione definitiva, la situazione dell’uomo cambia improvvisamente quando viene  coinvolto in un nuovo incidente e si risveglia in casa in compagnia dell’androide domestico Simon, che lo informa di come moglie e figlio siano andati dai genitori della donna per qualche giorno. Ben diversa è invece la vita di Adam Newman, felice abitante di City 5 che, pur avendo alcuni punti in comune con la vita di Richard (è anche lui giornalista ed ha una moglie ed un figlio, John), gode pienamente dell’affetto della propria famiglia. La sua esistenza sembra scorrere perfettamente, pur a dispetto dell’incidente automobilistico che lo ha visto coinvolto recentemente, i cui ricordi appaiono però come frammentati e sconnessi. Due destini, quelli di Richard ed Adam, che sembrano inevitabilmente destinati ad incrociarsi e fondersi assieme, nonostante la distanza che separa le loro esistenze, non appena inizieranno ad interrogarsi in merito alla loro situazione attuale: dove sono realmente Tracy e James? A cosa servono le quotidiane sedute mediche a cui viene sottoposto John? È a questo punto che la realtà che i due sembravano conoscere alla perfezione, pur tra gioie e dolori, finisce per ribaltarsi in maniera irrimediabile, mettendo in luce una cospirazione che mira a rivoluzionare per sempre l’evoluzione umana, in una maniera tanto drastica quanto inaspettata. Lenta, lentissima nelle sue battute iniziali, la storia che funge da collante alle vicende di State of Mind saprà intrattenervi per circa 7-8 ore grazie ad un plot intrigante e capace di invogliare il giocatore a giungere ai meritati titoli di coda, complice anche una regia cinematografica di sicuro impatto, capace di accompagnare e sottolineare in maniera efficace le varie situazioni. Ricca di rimandi, sia contestuali che estetici, a esponenti iconici del genere come Blade Runner, Io Robot, Ghost in the Shell e (soprattutto) Matrix, la produzione teutonica ci sbatte in faccia un futuro cupo e brutale, in cui forze misteriose sembrano voler lasciare spazio soltanto agli individui migliori, sacrificando sull’altare del progresso e dell’evoluzione chiunque venga ritenuto inferiore. E la via scelta per veicolare questa ipotetica visione è quella dell’avventura grafica, anche se il gameplay proposto appare comunque un po’ troppo rarefatto per sposare pienamente questo genere videoludico tanto caro ai ragazzi di Daedalic.

Il peso della storia

Per certi aspetti, il gameplay di State of Mind può essere avvicinato ai lavori di Quantic Dream, anche se a differenza di quanto realizzato sino ad oggi dal team capitanato da David Cage, il tutto scorre in maniera decisamente più lineare, limitando quasi a zero l’influenza che il giocatore ha nei confronti dello svolgimento narrativo. Fondamentalmente non avremo scelte da compiere (se non un paio condensate nelle ultimissime battute dell’avventura, a cui se ne aggiunge una posta all’incirca a metà), ma dovremo limitarci ad assecondare la visione del team, compiendo di volta in volta le azioni che ci verranno richieste. Le possibilità di interazione previste non prevedono digressioni o bivi di qualunque tipo, con le divagazioni e gli hotspot cliccabili che servono unicamente per scavare più a fondo nel background dei vari personaggi e del mondo in cui vivono. Ci ritroveremo quasi sempre a muoverci in ambienti abbastanza circoscritti, dialogando con i vari personaggi presenti sulla scena, al fine di raccogliere le informazioni utili allo sblocco delle sezioni successive. Di tanto in tanto ci capiterà di intervenire sul gioco in maniera più diretta, risolvendo qualche semplice enigma, prendendo parte ad alcuni minigiochi molto essenziali, oppure saremo chiamati a switchare tra i vari personaggi giocabili, così da sbrogliare alcune situazioni particolari. Nelle parti finali ci troveremo anche ad agire in modalità stealth, ma si tratta comunque di porzioni marginali, utili unicamente ad inframezzare un incedere che sfocia più di una volta all’interno dei confini del walking simulator. È a questo punto che appare evidente come il lasciarsi rapire dalla sceneggiatura sia l’unico modo che il giocatore ha per godersi pienamente State of Mind, visto che cadendo tale coinvolgimento il tutto finisce per sfaldarsi brutalmente sotto il peso di un gameplay quanto mai abbozzato ed approssimativo. Ma appare ben evidente come non fosse l’interazione massiccia e perennemente partecipe del player il fine ultimo di State of Mind.

Arte povera

Se è vero che, per quanto interessante, la sceneggiatura del titolo sia una riuscita rielaborazione di topoi già visti, laddove il tutto riesce ad avere un carattere decisamente personale ed unico è sul versante tecnico. Il team, difatti, ha optato per proporre una messa in scena quanto mai originale, dove personaggi volutamente low poly si muovono in ambienti estremamente dettagliati e definiti. Questo curioso mix crea un contrasto in prima battuta straniante, ma che con il passare dei minuti finisce per andare a costituire uno dei punti di forza dell’intera produzione. L’universo di gioco finisce, così, per assumere connotati unici, anche se sarà davvero impossibile non ritrovare in qualche scorcio, inquadratura, personaggio od oggetto, evidenti richiami ad altre situazioni, senza però che questo finisca mai per scadere nel becero citazionismo esagerato. Sapiente, come detto in apertura, l’utilizzo della camera virtuale, che ci restituisce una regia complessiva di eccellente fattura, pur in assenza di una recitazione digitale fotorealistica. Buono, anche se migliorabile in alcune voci, il doppiaggio in lingua inglese, a cui si accompagnano fortunatamente i sottotitoli nella nostra lingua.

Lontano dai canoni propri delle avventure grafiche a cui Deadalic ci ha abituato, State of Mind decide consapevolmente di esplorare questa tipologia videoludica da un altro punto di vista, meno interattivo e più focalizzato sulla narrativa. È evidente come questa scelta sia la discriminante principale in grado di influire sul giudizio complessivo del lavoro, dove chi è solito premiare l’interazione sopra ad ogni cosa finirà per rimanere estremamente deluso. Bollare come insufficiente il gioco, però, sarebbe quanto mai ingiusto, soprattutto in un periodo in cui le avventure narrative sono divenute una (talvolta) piacevole costante. E se lo inquadriamo in questa prospettiva, State of Mind riesce brillantemente ad emergere, grazie ad una sceneggiatura che, per quanto lenta ad ingranare, finisce per guadagnare punti dopo ogni scena, visto come riesce a rielaborare in maniera efficace situazioni comunque già sperimentate altrove.