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Recensione Starfield

di: Luca Saati

Caricare Starfield di tante responsabilità è forse ingiusto, ma è stato inevitabile per tanti motivi. Innanzitutto questa generazione di console, che la si guardi lato Playstation o Xbox, fatica a ingranare la marcia a tre anni di distanza dal lancio e quindi c’è l’assoluto bisogno di titoli in grado di giustificare la spesa per i nuovi hardware. Microsoft dal canto suo si sta muovendo molto bene se si pensa a un servizio come Xbox Game Pass, ma, ad eccezione di qualche caso isolato, non riesce ancora a trovare la quadra dopo le mirabolanti acquisizioni, se si pensa all’harakiri del recente Redfall o al fallimento di Halo Infinite. E poi c’è Bethesda Game Studios che per la prima volta in 25 anni pubblica una nuova IP staccandosi dai soliti Fallout e The Elder Scrolls per cui è diventata famosa. Insomma per una serie di ragioni che non dipendono certamente da lui, Starfield è arrivato sul mercato con delle aspettative altissime, forse troppo alte per chiunque nel panorama videoludico, ed è proprio per questi motivi che, una volta avviato il gioco per cimentarmi con questa recensione, ho fatto un doveroso reset nel mio cervello, trattando la nuova opera di Bethesda come qualsiasi altro gioco in fase di review.

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Nato tra le stelle

La storia di Starfield inizia all’interno di un complesso minerario dove il protagonista entra in contatto con uno strano manufatto che genera una strana visione e lo fa svenire. Una volta risvegliato inizia il gioco vero e proprio con il classico editor del personaggio, che non solo permette di modificare i tratti estetici a partire dalla corporatura fino ai lineamenti del viso, barba e acconciatura, ma anche il suo background narrativo e i tratti caratteriali.

La scelta del background narrativo del personaggio non modifica parti della storia come ad esempio nel prologo di Cyberpunk 2077, che cambia in base all’origine scelta, ma permette di accedere ad alcuni dialoghi speciali in alcune situazioni oltre a sbloccare immediatamente alcune abilità. Ad esempio la mia scelta è ricaduta sul Diplomatico che sblocca il primo punto in Persuasione, Commercio e Diplomazia, ma le opzioni sono tante tra Gangster, Cacciatore di Taglie, Professore, Chef, Medico da Combattimento, giusto per citarne alcuni, tutti con le loro abilità iniziali. Ben più semplici invece i tratti che garantiscono dei semplici bonus e malus passivi. Ed è proprio nella (non) caratterizzazione del protagonista che Starfield si discosta dai precedenti lavori di Bethesda, svolgendo un lavoro nettamente migliore. In Skyrim abbiamo impersonato un Dragonborn, in Fallout 4 un genitore alla ricerca del figlio, mentre in Starfield si interpreta semplicemente sé stessi, una persona qualunque senza obblighi morali e con la massima libertà di affrontare in modo molto personale la propria epopea spaziale.

Fatte queste scelte iniziali, mi sono quindi imbarcato nella quest principale che mi ha portato ad incontrare Barrett, un individuo che a quanto pare è a conoscenza dell’esistenza dei manufatti e mi presta gentilmente la sua nave per raggiungere Constellation, un’organizzazione impegnata a svelare i misteri della galassia e che tra l’altro è in possesso di alcuni manufatti che sta studiando meticolosamente. La storia di Starfield dunque ruota tutta attorno a questi oggetti. Nelle circa 54 ore che ho impiegato per arrivare ai titoli di coda ho esplorato la galassia alla ricerca di nuovi manufatti, per ricomporre i pezzi di questo puzzle e scoprire quali misteri nasconde.

Ma Starfield non vive solo di manufatti, poiché nella space opera di Bethesda ho fatto la conoscenza di un nutrito gruppi di personaggi tutti scritti ottimamente, scoprendone la loro storia e ciò che li spinge a essere ciò che sono. Dal ricco imprenditore entrato a far parte di Constellation per amore della scienza, ai pirati della Flotta Cremisi e l’organizzazione militare spaziale che li combatte, o i membri di un culto religioso del Grande Serpente e così via. Insomma di personaggi variopinti se ne incontrano in Starfield, generando curiosità nei loro confronti grazie ad un egregio lavoro di scrittura da parte degli sceneggiatori di Bethesda Game Studios. La medesima cura è stata riposta anche nella lore di tutto l’universo, dai motivi che hanno spinto l’umanità a spostarsi tra le stelle (la versione breve di 300 anni la trovate qui), alla creazione delle città e tutto ciò che ruota attorno a loro, basti pensare al sottobosco criminale che governa la città cyberpunk di Neon City da fare invidia alla Night City di Cyberpunk 2077 in quanto a qualità della scrittura.

Nelle oltre 50 ore che ho dedicato al gioco mi è sembrato di aver scalfito solo la superficie di questo vasto universo. Così vasto che già solo nelle prime ore di gioco mi sono ritrovato ricoperto da una marea quest da svolgere. Anche un’operazione semplice come camminare per le strade di una città e ascoltare gli NPC parlare può portare allo sblocco di nuove missioni. In Starfield sono le quest a cercare me, e non viceversa. E qui però tocca parlare della doppia faccia proprio delle suddette missioni: se da un lato abbiamo una quest principale e quelle dedicate alle varie fazioni di una qualità decisamente alta a livello di scrittura, ma davvero godibili anche lato gameplay, con alcune chicche piazzate qua e la davvero riuscite, dall’altra ci sono le cosiddette fetch quest di cui nel 2023 avrei preferito fare tranquillamente a meno, che fanno uscire la natura un po’ vecchia scuola degli RPG di Bethesda. Purtroppo Starfield è pieno di quelle missioni che fanno da riempitivo e che seguono sempre lo stesso schema (parla con tizio, vai da caio e parlaci, torna da tizio a riferire), ma che non aggiungono niente all’esperienza di gioco rivelandosi un inutile riempitivo.

Davvero un peccato che Bethesda non sia riuscita a trasportare la medesima qualità in tutte le quest, perché quando Starfield decide di farti immergere nel suo universo, nei suoi intrighi politici e fantascientifici, e nei suoi personaggi ci riesce completamente. Persino quando sembra arrivato il momento di salutarlo dopo i titoli di coda ecco che con un colpo di genio integra perfettamente il New Game+ nella narrativa di gioco e ti spinge ad affrontare almeno una seconda run per guardare tutto da una prospettiva diversa.

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“Verso l’infinito…”

Che Starfield sia un gioco Bethesda in tutto e per tutto lo si capisce sin dai primi momenti di gioco, ma c’è un problema ed è anche grosso. Immaginate per un attimo la libertà tipica dei videogiochi della software house all’interno di un contesto spaziale, ed ecco che viene fuori un gioco enorme e sconfinato guidato dal piacere della scoperta. Ecco, Starfield è sì quel gioco enorme e sconfinato, ma il senso di scoperta viene in parte ridimensionato, risultando limitato non solo per i canoni a cui ci ha abituato Bethesda, ma anche per i canoni del panorama videoludico attuale.

In Starfield infatti non è possibile esplorare liberamente né lo spazio e né i pianeti. La nave spaziale infatti non è tanto diversa da un hub in cui riorganizzare le proprie risorse, parlare con i membri dell’equipaggio e sfruttare il fast travel. Non vi è la possibilità di manovrare direttamente la nave per atterrare manualmente sul pianeta, e né è possibile decollare per raggiungere lo spazio e viaggiare verso un altro pianeta. Tutto funziona tramite il viaggio rapido e l’unico controllo diretto della nave spaziale lo si ha nei pressi di un orbita di un pianeta. Neppure un viaggio molto breve dalla terra alla luna è possibile fare con le proprie mani, si deve semplicemente aprire la mappa stellare e decidere verso quale pianeta dirigersi e far così partire una breve cutscene raffigurante il viaggio, che altri non è che un intermezzo per nascondere il caricamento. Caricamento che in caso di viaggio rapido direttamente sul pianeta compare come una spada di damocle, ed è una costante troppo presente anche quando nelle città si passa da un’area all’altra. In un 2023 in cui i videogiochi ci hanno abituato a un gameplay senza soluzione di continuità, gli eccessivi caricamenti e le scelte di design (dovute probabilmente anche dai limiti tecnici del motore di gioco) rappresentano un enorme e deludente passo indietro.

Dopo qualche ora comunque ci si abitua alla struttura di gioco e Starfield conferma la solidità dell’impianto videoludico made in Bethesda, ovvero un RPG in prima persona che mescola fasi action, stealth e dialoghi a scelta multipla. L’approccio all’azione dipende da come sviluppate il personaggio: personalmente nella prima run ho favorito il dialogo e la persuasione, ove possibile, per evitare l’azione con un mini-gioco che richiede di riempire un apposito indicatore entro un certo numeri di dialoghi. Dove la persuasione non poteva funzionare, ecco che arriva l’azione ad armi spianate con un gunplay tutto sommato solido e in linea con i giochi che ibridano shooting e RPG, a cui bisogna aggiungere il dinamismo nei movimenti offerto dal jetpack. Ci sono diverse bocche da fuoco tra armi esotiche, futuristiche, energetiche e altre prese di peso dall’armamento dei giorni nostri. Le armi ovviamente sono presenti in varie forme di rarità (dalla comune bianca fino alla leggendaria evidenziata dal colore oro) e sono inoltre completamente personalizzabili mediante gli appositi tavoli, con mod che aumentano i caricatori, la precisione, la lunghezza della canna e silenziatori per un approccio stealth che ho invece testato nella seconda run in New Game+, sbloccando le apposite abilità. Non aspettatevi la perfezione di un Dishonored, ma lo stealth funziona e ben si integra nell’esperienza di gioco, che passa fluidamente dall’azione alla furtività. Ciò che lascia con l’amaro in bocca è l’intelligenza artificiale dei nemici con routine comportamentali basilari che non ha mai fatto molto per mettermi davvero in difficoltà.

Fortunatamente Starfield riesce a colmare queste debolezze con una grande varietà di situazioni, garantite da uno skill tree suddiviso in cinque aree: abilità fisiche, sociali, di combattimento, scientifiche e tecnologiche. Ogni area ha una serie di abilità passive da sbloccare, ciascuna che può essere potenziata ulteriormente tre volte, a patto di completare una piccola sfida. Ad esempio per migliorare l’abilità di Persuasione la prima volta ho dovuto persuadere cinque NPC, poi dieci e così via; per migliorare i danni con le armi balistiche mi è stato chiesto di uccidere un certo numero di nemici; per migliorare l’abilità alla guida della nave di distruggere un certo numero di navi nemiche. Il ventaglio offerto da Starfield è ampio e variegato e consentente di creare un protagonista a seconda delle proprie preferenze. Ci sono anche dei poteri da sbloccare su cui non mi soffermo più di tanto per evitare spoiler, ma sono separati dall’albero delle abilità e di conseguenza il gioco non chiede di sbloccare l’uno o l’altro spendendo un punto abilità, ma semplicemente di trovarli esplorando l’universo.

Oltre a fare da hub, la nave spaziale è ovviamente in grado di combattere, con i controlli che ricordano quelli di un classico gioco di aerei come War Thunder, ma più all’acqua di rose. Con la levetta sinistra si modifica l’accelerazione mentre con la sua pressione si attiva un rapidissimo scatto, con la destra si regola la sterzata e la mira, mentre i due grilletti e il tasto Y servono per fare fuoco con le rispettive armi. Ogni nave ha un certo quantitativo da energia da distribuire tramite le freccette sul D-Pad sulle sue sei componenti. In combattimento, ad esempio, conviene dare più energia allo scudo e alle tre armi, se si opta per una maggiore potenza di fuoco quando si è alla guida di una nave di grandi dimensioni, altrimenti con una nave più agile conviene puntare a dare energia ai motori, per una maggiore velocità ed evitare così i colpi nemici o addirittura sfruttare i gravimotori per scappare via se le cose dovessero farsi complicate. Anche qui ho trovato una grande varietà grazie alle tante tipologie di mezzi che è possibile sbloccare o acquistare. E per i perfezionisti che desiderano la nave dei propri sogni, c’è un ricco editor un po’ complicato da usare all’inizio, ma che una volta assimilato riesce a esaudire i sogni e i desideri più sfrenati e online già abbondano i novelli ingegneri in grado di ricreare navi iconiche come il Millennium Falcon e l’X-Wing di Star Wars o il Pelican di Halo.

E c’è poi la componente crafting, che Bethesda ha intelligentemente reso accessoria ma in grado comunque di arricchire l’esperienza di gioco. Pur non essendo liberamente esplorabile nella sua interezza, ma solo in aree circoscritte generate in modo procedurale una volta scelto il punto di atterraggio della nave, ogni pianeta nasconde al suo interno materiali e fauna in grado di fornire risorse da raccogliere. Le prime risorse raccolte le ho spese per creare i primi avamposti, per automatizzare la generazione delle risorse principali per la creazione di nuovi avamposti sui pianeti, che a loro volta generano risorse più rare. L’idea insomma è quella di creare un insieme di avamposti autosufficienti che a loro volta generano quelle risorse utili da spendere presso gli appositi tavoli per migliorare armi, tute spaziali, attrezzature per gli stessi avamposti e migliorie per i medicinali. La creazione di tali strutture non è di per sé troppo complicata una volta comprese le meccaniche, tuttavia è innegabile che la visuale in prima persona risulti poco user friendly e fortunatamente è stata inserita una più comoda visuale dall’alto per gestire il tutto. Per aumentare la produzione delle risorse degli avamposti si può assumere della manovalanza, a patto di costruire un hub in cui farli vivere, e se sul pianeta vive della fauna ostile sono presenti anche sistemi di difesi automatizzati. Peccato che il tutto si limiti, per l’appunto, a dei semplici avamposti per l’estrazione delle risorse e non vada oltre. Sarebbe stato bello creare una vera e propria colonia spaziale, ma mi rendo conto che qui è l’amante dei gestionali che è in me a chiedere troppo, e che dovrebbe rivolgere le proprie attenzioni a prodotti appartenenti a ben altro genere.

Un universo da scoprire

Tecnicamente Starfield è una continua altalena che regala momenti di puro godimento, alternati ad altri sicuramente più sottotono. In generale si poteva chiedere di più in quanto a impatto visivo, considerando anche i tanti caricamenti che inframezzano l’intera esperienza di gioco (il motore in casi come questi ha bisogno di un boost importante in vista di The Elder Scrolls VI). Inoltre è impossibile negare che i volti dei personaggi siano poco espressivi e il comparto animazioni in generale non rappresenti proprio l’eccellenza, e proprio per questo la visuale in prima persona resta ancora quella più adatta per godersi il gioco, come per i precedenti lavori dello studio. Poi però ci si sofferma sui piccoli dettagli come gli interni ricchi di oggetti con cui interagire, ognuno dotato della sua fisica, o la cura riproposta nelle tute spaziali e nelle armi.

E poi non si può non restare estasiati dal comparto artistico che regala scorci meravigliosi e che richiamano più volte la modalità foto per immortalare le bellezze di questo universo. Il gioco mescola elementi generati proceduralmente ad altri creati a mano dagli artisti di Bethesda. Si vede subito la cura con cui sono state ricreate manualmente alcune location: dalla futuristica Nuova Atlantide, al cyberpunk di Neon City, per poi passare alle atmosfere da selvaggio west di Akila City o ai claustrofobici sotterranei di Cydonia.

E poi ci sono quegli elementi generati proceduralmente in cui scopriamo pianeti inospitali caratterizzati da rocce, innevate catene montuose o infernali deserti, e altri straripanti di flora e fauna. Gli amanti dell’esplorazione spaziale adoreranno scoprire le meraviglie di questo fantastico universo, ma resta un po’ di amaro in bocca quando si nota che la generazione procedurale tende a ripetere troppo frequentemente il design di alcune location, come i laboratori di ricerca sparsi in giro per i pianeti. Tuttavia devo ammettere che in quanto a varietà di ambienti ci troviamo sicuramente dinanzi al miglior lavoro dello studio.

Il tutto è accompagnato da una magnifica colonna sonora a cura di Inon Zur e da un doppiaggio in inglese di ottimo livello. La versione Xbox Series X da me provata ha messo in mostra una buona stabilità che rende Starfield il gioco meglio ottimizzato da Bethesda al lancio. C’è ancora qualcosa da limare con delle future patch, ma mi posso ritenere soddisfatto dei pochi bug incontrati nelle mie quasi 60 ore di gioco. Il framerate è ancorato sui 30 fps con dei cali sono nelle situazioni davvero concitate e con tanto caos su schermo.

Commento finale

Starfield è un RPG dal DNA 100% Bethesda il cui unico e vero errore è di non guardare al futuro, ma di restare troppo ancorato ad alcuni elementi del passato in termini di game design, non rinnovando una formula che i fan dello studio conoscono fin troppo bene. Nonostante alcuni suoi limiti, Starfield è un gioco immenso capace di regalare centinaia di ore di gioco grazie a meccaniche di gameplay ben consolidate e una narrazione in grado di tenere incollati allo schermo anche oltre i titoli di coda.