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Recensione Recensione di Shadows of the Damned

Recensione di Shadows of the Damned di Console Tribe

di: Nicola "Wanicola" Caso

L’aldilà è senz’altro uno dei concetti più spaventosi e allo stesso tempo più affascinanti radicati nell’immaginario collettivo. Esplorato in lungo e in largo sin da quando l’uomo ha iniziato a porsi il problema della spiritualità, il concetto di vita dopo la morte è stato uno degli argomenti più trattati sia nella letteratura più antica che nelle più recenti arti audiovisive come cinema e videogiochi. Ma, in fondo, sarà veramente così come ci viene descritto nei libri? Diavoli rossi con forconi e zoccoli caprini, fiamme che lambiscono anime dannate e il sommo principe del male, Satana in persona?
Mettendo un attimo da parte i discorsi filosofici, c’è anche chi ha pensato che l’inferno possa assomigliare piuttosto ai sobborghi di una cittadina messicana, opportunamente conciata per l’occasione e popolata da orde di demoni deformi e dall’aspetto decisamente “Freak”.
In caso non fosse bastata la rivisitazione dell’Inferno dell’omonimo Dante’s Inferno a far rivoltare il Sommo Poeta nella tomba, EA è pronta a tornare alla carica dopo aver assoldato i talentuosi (e decisamente fuori di testa) Goichi Suda e Shinji Mikami per l’occasione. E questa volta non ce ne è veramente per nessuno.
Armatevi della vostra giacca in pelle preferita, denti umani e fragole a volontà perchè stiamo per addentrarci all’interno del luogo più inospitale e pericoloso dell’universo, nonché nelle menti di due degli sviluppatori più folli e visionari di sempre, di nuovo insieme dai tempi dell’allucinato Killer7.


Highway To Hell

Lungi dall’essere una rilettura in chiave moderna della Divina Commedia con l’ennesimo personaggio ispirato al nostro Dante, la storia di Shadows of the Damned sembra piuttosto trarre spunto da un altro grande classico della cultura: Ghost’n Goblins (a cui si rimanda chiaramente anche la mappa di gioco).
Come nel classico targato Capcom, anche questa volta dovremo affrontare un pericoloso viaggio per amore, alla volta del castello del signore del male. Solo che questa volta il prode cavaliere è un “gringo loco” messicano tutto tatuato e la sua principessa un’improbabile ragazza conosciuta nel cassonetto di un retrobottega.
Garcia “Fucking” Hotspur è un cacciatore di demoni dalla lingua sciolta e dal grilletto facile fin troppo ligio al suo dovere, tanto che il suo operato è riuscito ad attirargli contro le ire di qualcuno molto in alto nelle profondità dell’oltretomba. Una sera di ritorno al suo appartamento, il nostro eroe scopre che la sua abitazione è stata presa di mira da un’ondata di non morti e che la sua fidanzata Paula è stata brutalmente trucidata dall’improbabile Fleming, signore degli inferi. In un disperato tentativo di recuperare l’anima della propria amata, Garcia si tufferà all’inseguimento di Fleming finendo dritto in un condotto che lo porterà sino alle porte dell’inferno, ex dimora tra l’altro della sua fida spalla Johnson, un teschio parlante mutaforma.
Per molti potrà sembrare un incipit insulso e banale e a conti fatti lo è, ma come spesso capita in questa tipologia di giochi, la trama non è che un mero pretesto per mettere in scena situazioni deliranti ed eventi al limite dell’assurdo.
Come i film di Jodoroski di cui Suda 51 è un grande sostenitore, l’importante non sono tanto le vicende messe su schermo, ma come esse vengono presentate. In quest’ottica, il focus di Shadows of the Damned non è certamente scoprire se il nostro eroe riuscirà o meno a salvare la propria bella, ma piuttosto sapersi godere il viaggio e le vicende secondarie che lo porteranno a quel fine.
Gran parte del fascino di questa nuova avventura, infatti, deriva da una sceneggiatura completamente sopra le righe e votata al B-Movie più spinto, maturata dall’autore in seguito all’esperienza avuta con No More Heroes.
Oltre all’ambientazione totalmente fuori di testa, uno dei maggiori punti di forza del gioco consiste nella profonda caratterizzazione dei due protagonisti. La strana coppia Garcia/Johnson non sprecherà infatti occasione per commentare ogni minimo avvenimento di ciò che gli circonda, senza lesinare battute spinte sul gentil sesso, la religione e quant’altro capiti loro a tiro, che si tratti semplicemente di leggere un libro o commentare le strane apparizioni dell’anima di Paula.
La scelta di puntare buona parte del fascino dei personaggi su un registro stilistico di così bassa lega (i doppi sensi si sprecano proprio) ovviamente non sarà condivisibile e ben accetta da tutti, ma d’altronde anche Rodriguez e Tarantino hanno i loro detrattori e, mai come in questo caso, la definizione di “gioco d’exploitation” potrebbe essere più appropriata.


Welcome to Hell

Appurato che la sceneggiatura sembra stata scritta appositamente più per un “Trash Movie” che non per un videogioco, come si comporta questo Shadows of the Damned pad alla mano? Stando a ciò che dice il retro della copertina, il progetto congiunto di Grasshopper e EA viene etichettato come un “Thriller psicologico d’azione”, prendendo discretamente le distanze dai Third Person Shooter moderni più blasonati e andando invece a riprendere parecchi elementi tipici di quel Resident Evil 4 che tanto decretò la fortuna di Mikami durante la scorsa generazione.
Tanto per cominciare, lo schema di gioco, il tipo di visuale adoperata e la gestione della mira sono le medesime adoperate per il quarto capitolo della celebre saga horror, con in più la possibilità di potersi muovere (seppur in maniera più goffa) durante il puntamento attraverso l’uso congiunto dei due stick analogici. Non solo, a differenza di Leon S. Kennedy, Garcia avrà anche la possibilità di schivare gli attacchi nemici con la semplice pressione del tasto azione, grazie al quale sarà anche possibile eseguire rapidi scatti di 180° utili a guardarsi le spalle, e persino eseguire tutta una serie di attacchi corpo a corpo a base di colpi di torcia e quick time event.
L’idea di rendere il gameplay più dinamico rispetto al suo diretto ispiratore ha permesso agli sviluppatori di sbizzarrirsi con tutta una serie situazioni in cui il massacro più sfrenato non sarà sempre l’unica soluzione contemplata per venire a capo di determinate situazioni. Certo, in Shadows of the Damned si spara sempre, e parecchio pure, ma spesso e volentieri l’unico modo per salvare la pellaccia da un branco di demoni affamati sarà prima di tutto una fuga programmata e un rapido studio dell’ambiente circostante. D’altronde non bisogna dimenticare che questa volta la battaglia è combattuta a casa loro, negli inferi.

!==PB==!

Una caratteristica fondamentale dell’oltre tomba messo ideato da Suda 51, è l’incedere opprimente e costante delle tenebre, vere e proprie nubi di oscurità che inghiottiranno intere aree trasformandole zone venefiche che non solo renderanno gli avversari invulnerabili, ma prosciugheranno lentamente l’energia vitale del nostro protagonista.
In questi casi, l’unico modo per sopravvivere consiste nel rintracciare appositi lampadari (a proposito, sapevate che all’inferno sono soliti illuminare l’ambiente con delle teste di capre belanti?) e ripristinare l’area alla normalità con un rapido e preciso colpo di luce del nostro fidato Johnson.
Ovviamente, ciò è più facile a dirsi che a farsi, tanto che non di rado capiterà di ritrovarsi in situazioni senza nessuna via d’uscita se non quella di arrivare fino in fondo evitando completamente i nemici.
O ancora capiterà di cercare volontariamente una fonte di oscurità per poter abbattere determinati mostri o avvistare particolari interruttori non visibili normalmente.

Tutte queste situazioni, spesso anche mescolate fra di loro e condite con la risoluzione di semplici enigmi ambientali o chiavi da rintracciare, forniscono al gioco un ritmo e una varietà di tutto rispetto, in grado di proporre sempre nuove e divertenti situazioni, anche solo semplicemente ampliando quelle precedentemente affrontate. A partire dalla seconda metà di gioco in poi soprattutto, inseguimenti, semplici minigiochi e nuovi avversari da affrontare in modo più costruttivo che non un semplice “headshot”, renderanno il tutto sempre vario, divertente e in molti casi persino ostico. Tutto questo senza neanche aver nominato il Big Boner!

Cowboys from Hell

Una volta sistemati i problemi con l’illuminazione, il passo successivo sarà quello di imbracciare il nostro Johnson e ora si, dedicarsi alla carneficina più efferata. L’aspetto più utile e interessante del nostro fidato e irriverente teschio fluttuante, oltre alla possibilità di essere utilizzarlo come torcia, sarà infatti la capacità di trasformarsi in tre diverse bocche da fuoco: un classico revolver buono per tutte le occasioni, una letale mitragliatrice caricata a denti e l’immancabile fucile a pompa spara teschi.
Nonostante l’esiguo numero di armi a disposizione non sia propriamente esaltante, bisogna comunque ammettere che il risultato finale è comunque accettabile e adatto a ogni tipo di occasione e dannato, rispondendo ognuna in maniera differente e restituendo un ottima sensazione in termini potenza di fuoco.
Sfogare la propria rabbia sui nemici dunque, sarà cosa buona e giusta (oltre che divertente) e la possibilità di poter amputare loro arti, fargli saltare in aria la testa attraverso spettacolari sequenze precalcolate o semplicemente saltargli addosso mentre esanimi si trascinano al suolo, risulterà non solo sadicamente appagante, ma anche remunerativo per le proprie tasche. Certo, il tutto sarebbe stato ancora più soddisfacente se tra gli avversari vi fosse stata una maggiore aggressività (la difficoltà generale è tutt’altro che improba) e varietà in termini di specie demoniache, ma nel complesso, anche per merito delle eccezionali boss fight sempre originali e impegnativi anche grazie alle diverse interazioni con le tenebre, la voglia di uccidere e la sete di sangue difficilmente caleranno conl’incedere dell’avventura.
Similmente a quanto visto in altri prodotti analoghi, anche Shadows of the Damned propone un sistema di crescita vincolato all’acquisizione di determinati crediti (qui delle gemme di vario colore), punti utilizzabili per acquisire nuovi potenziamenti per le varie armi o semplicemente migliorarle caratteristiche delle stesse.
Le più comuni gemme bianche, rilasciate dai nemici e dai barili sparsi qua e la per gli inferi, permetteranno a Garcia di comprarsi da bere presso presso appositi distributori (all’inferno ci si mantiene in salute ai danni del proprio fegato) o di acquistare presso il negozio itinerante di un mezzo demone munizioni e le più importanti gemme rosse.
Queste ultime, più rare e rintracciabili anche nascoste all’interno dei vari livelli, consentiranno di potenziare il colpo di luce, le tre forme Johnson attraverso danno, velocità di ricarica e capienza oppure l’indicatore massimo della salute di Garcia. Infine, la gemme blu verranno rilasciate dai boss una volta sconfitti e saranno necessarie al proseguimento dell’avventura in quanto aggiungeranno nuove abilità alle armi (avevamo già accennato al Big Boner?).



One Way Ticket to Hell… And Back

Così, proseguendo nell’avventura avremo modo prima di abbattere pareti a suon di esplosivo, poi di utilizzare i teschi del fucile come bocce da bowling e così via, anche se bisogna ammettere purtroppo che tale sistema di potenziamenti influisce solo marginalmente sulla struttura e l’esplorazione dei livelli, generalmente costruiti in maniera chiusa e claustrofobica e che ammiccano in più di un’occasione ai classici dell’orrore come Silent Hill ( anche sequi il tono è decisamente più scanzonato e votato all’azione).
Nonostante la possibilità in alcune aree di esplorare ambienti di discrete dimensioni, la progressione risulterà sempre molto lineare e guidata, lasciando al giocatore giusto il compito di scoprire qualche malcelato passaggio segreto dove spesso giace placidamente qualche gemma rossa e null’altro.
Questo tipo di scelta, così come l’aver optato per un approccio totalmente “story-driven” dei livelli (subordinati cioè, al solo incedere della trama) si è rivelata senz’altro vincente per enfatizzare l’aspetto cinematografico del titolo, in grado di proporre un ritmo invidiabile per tutti e cinque capitoli che compongono la storia principale, per un totale di quasi 10 ore di pura goduria splatter e divertimento a buon mercato.
Tuttavia, Shadows of the Damned paga pegno con un fattore rigiocabilità pressoché nullo a causa dell’impossibilità di poter rigiocare i livelli precedenti, o anche semplicemente iniziare da capo una nuova partita portandosi dietro i progressi effettuati precedentemente.
Come per uno spettacolo al cinema, anche qui una volta calati i titoli di coda si rimane fissi sullo schermo sperando che una volta finiti, vi sia dell’altro. Eppure nonostante tutto, come le storie più belle sono quelle fatte e finite che continuano a rimanervi in testa una volta chiuso il libro, anche il viaggio di Garcia e Johnson rimarrà una di quelle storie a cui non potrete fare a meno di pensare con sorriso stampato sulla faccia. D’altronde chi se lo scorda il Big Boner.



Burn In Hell

Se del comparto artistico abbiamo già avuto modo di parlare in lungo e in largo, sottolineando più volte uno stile completamente inarrivabile e fuori di testa (seppur non adatto a tutti), discorso diverso merita il comparto tecnico analizzato in freddi termini di resa grafica.
Contrariamente ai precedenti lavori di Suda 51, Shadows of the Damned abbandona l’utilizzo dell’insolito Cell Shading che tanto è stato apprezzato in opere come Killer7 e No More Heroes, per abbracciare un motore grafico decisamente più performante in termini di mera potenza, ma dotato allo stesso tempo di una minore personalità.
L’aver optato per l’Unreal Engine 3 ha permesso al team di sviluppo di usufruire di solide basi per quanto riguarda la generale modellazione poligonale, soprattutto per quanto riguarda i protagonisti, ma allo stesso tempo impedisce al titolo di spiccare sulla moltitudine di titoli che sfruttano la tecnologa messa a punto per Gears of War. Così, nonostante l’utilizzo i alcune tecniche distintive come i bordi totalmente sfumati o il particolare uso dell’illuminazione fornita da Johnson, difficilmente troveremo soluzioni grafiche veramente originali che non si siano viste già altrove.
Sembra inoltre un’implicita regola di Grasshopper Manufacture quella di sviluppare giochi con evidenti problemi legati all’aspetto tecnico. Nel caso di Sahdows of the Damned ciò si riscontra in una compenetrazione degli elementi di gioco con il paesaggio non sempre perfetta e che saltuariamente può portare alla luce fastidiosi bug. Una vittoria mutilata anche questa volta insomma.
Fin’ora abbiamo parlato di quanto Shadows of the Damned attinga molto dai precedenti lavori di Suda 51 sul fronte stilistico e da quelli di Shinji Mikami per quanto riguarda quello ludico, dimenticando volontariamente di citare il terzo grande nome dietro a questo particolare progetto.
“Dulcis in fundo”, Akira Yamaoka, autore delle musiche dei vari Silent Hill, ha composto interamente la colonna sonora che sentirete per le vie dell’inferno, firmando pezzi caratterizzati da suoni molto densi e dilatati che si sposano alla perfezione con il tono generale dell’avventura. Non mancheranno inoltre pezzi più ad ampio respiro come quello folle dedicato alla lumaca/lanterna o il tema principale più squisitamente rock, composto per l’occasione con l’ausilio dei Damned (continuando così, dopo gli Smiths e gli Stranglers,la tradizione Grasshopper di omaggiare i grandi della musica anni ’80).
Infine, un applauso anche per quanto riguarda la recitazione di Garica e Johnson (rigorosamente in Inglese coi sottotitoli), caratterizzato da un largo uso di dialettalismi spagnoli il primo e da una parlata al limite della censura il secondo. “Taste my Big Boner!”

Heaven and Hell

Ed eccoci infine giunti al capolinea di questo viaggio attraverso le stravaganti lande dell’inferno. Tirando le somme, basterebbe etichettare Shadows of the Damned come l’ennesimo titolo Grasshopper per liquidarlo con le classiche conclusioni “O lo si ama o lo si odia”, ma andando oltre si inizia a intravedere nello sviluppatore una certa tendenza ad aprirsi a un pubblico a più ampio ed occidentale. Fondamentale per questa conquista è stato senz’altro il supporto EA, il quale ha consentito alla software house nipponica di trovare un buon equilibrio tra gameplay e stile (cosa che in Killer7 ad esempio non era presente), rendendo il gioco consigliabile anche a un palato poco avvezzo a follie tipicamente giapponesi come quella in esame. Tutti gli appassionati dello splatter e del gore invece, troveranno nell’Inferno di Suda 51 il giusto concentrato di trash, follia e citazioni di cui godere da qui alla dannazione eterna. Siete stati avvisati Pendejos, gli inferi vi attendono!