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Recensione Psychonauts: In the Rhombus of Ruin

di: Simone Cantini

Come si fa a non voler bene a Tim Schafer? No, non si può non amare chi nel proprio curriculum annovera personaggi del calibro di Guybrush Treepwood, Tentacolo Viola e Manny Calavera. Proprio per questi motivi il buon Tim si è con gli anni scavato il proprio confortevole posticino all’interno del cuore di tutti i gamers. Tra i suoi meriti, però, figura anche quello di aver dato vita ad un folle universo, sottovalutato e misconosciuto ai più, con protagonista il bizzarro Raz Aquato, la cui avventura proseguirà in maniera corposa il prossimo anno, ma di cui possiamo tornare a pregustarne le atmosfere grazie a Psychonauts: In the Rhombus of Ruin.

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Il potere della mente

Collocata idealmente a cavallo tra la fine del primo episodio e l’inizio del prossimo capitolo, questa (ahinoi) breve esperienza sviluppata in esclusiva per il PlayStation VR ruoterà tutta attorno al rapimento di Truman Zanotto, padre di Lili, la fidanzata del nostro Raz e anche essa membra degli Psychonauts. Calata in un contesto tipicamente anni ’60, che ricorda molto il James Bond degli albori o, per rimanere in ambito videoludico, No One Lives Forever, questa condensata avventura ci condurrà nei meandri di un laboratorio sottomarino, con l’obiettivo di salvare il suddetto Truman Zanotto, tornare in possesso dei nostri poteri psichici e riunire la squadra caduta prigioniera del caro, vecchio, dottor Loboto. Strutturato in maniera simile a quanto già visto in Batman: Arkham VR, sfruttando quindi un sistema di spostamento a blocchi, il gioco ci vedrà impegnati nella risoluzione di alcuni semplici enigmi. Il nocciolo ruoterà attorno alla capacità di Raz di teletrasportare la propria coscienza all’interno del corpo degli altri che, per esigenze di narrazione, costituirà l’unico espediente utile per esplorare le varie ambientazioni. Non ci troveremo mai al cospetto di situazioni particolarmente complesse o estremamente originali, ma l’accoppiata vincente costituita da uno stile visivo semplicemente favoloso e la capacità di interazione garantita dal PlayStation VR riesce a garantire a Psychonauts: In the Rhombus of Ruin un boost qualitativo che difficilmente può essere eguagliato da altre produzioni analoghe.

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Questione di stile

Oramai è palese come scegliere una struttura di gioco prevalentemente statica possa portarsi in dote un comparto grafico decisamente appagante e la produzione targata Double Fine ne è un esempio più che lampante. Al di là degli indubbi meriti stilistici e di un character design semplicemente perfetto ed unico, è la pulizia della messa in scena a colpire positivamente gli occhi del player: geometrie cartoonesche e nitide, unite ad un senso di profondità ben implementato, valgono quasi da sole il prezzo del biglietto. Un plauso particolare lo merita però il comparto sonoro che, grazie soprattutto ad un eccellente doppiaggio (purtroppo disponibile solo in inglese) e ad una colonna sonora che pare uscita di peso da un film dell’agente segreto più famoso del mondo, conferiscono a Psychonauts: In the Rhombus of Ruin un mood unico. Il gamplay stesso, per quanto minimale sotto certi punti di vista, presenta alcuni spunti interessanti che meriterebbero di essere ulteriormente approfonditi e sviscerati in un titolo di ben più ampio respiro, ma che se rapportati comunque al prezzo di commercializzazione del titolo non possono che lasciare piacevolmente soddisfatti. Il difetto principale, come scritto in apertura, è sostanzialmente riconducibile ad una longevità un po’ troppo condensata, dato che in circa due ore sarà possibile giungere ai titoli di coda, senza avere ulteriori stimoli a rigiocare i vari capitoli, se non per sbloccare i trofei mancanti. A voler essere eccessivamente pignoli si potrebbe criticare l’assenza di una qualsiasi forma di localizzazione in lingua nostrana ed una presenza un po’ troppo invasiva dei sottotitoli, la cui disposizione a schermo avrebbe potuto essere gestita sensibilmente meglio.

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Psychonauts: In the Rhombus of Ruin è senza dubbio un interessante antipasto al secondo capitolo ufficiale delle avventure di Raz, oltre che un’esperienza VR decisamente ben costruita, seppur eccessivamente breve. Questa micro avventura, difatti, offre un nuovo e convincente spaccato di come la realtà virtuale possa essere declinata in ambito videoludico, dimostrando anche come stile e prestazioni estetiche possano tranquillamente convivere sull’hardware targato Sony. Il problema principale è che ora avverto con maggiore insistenza il desiderio di un’avventura grafica ben più corposa da vivere letteralmente in prima persona.