Recensioni

Polybius

di: Simone Cantini

Chi videoludicamente è figlio degli home computer che hanno imperversato negli anni ’80, non può non aver incrociato il proprio joystick con una linea di codice ordinatamente compilata da Jeff Minter. Sia si parli di Commodore 64 (quanto mi manchi!) o di Spectrum, i titoli del coder britannico rappresentano quasi una rassicurante costante, la coperta di Linus capace di attraversare indenne, mutando più volte luogo di appartenenza, il passare delle generazioni hardware. Pur non rinunciando al suo particolare stile, oggi volutamente minimal come un tempo, Minter ha esportato il suo particolare credo videoludico su ogni piattaforma da gioco che sia stata mai prodotta, raggiungendo (perdonate la superbia) il suo apice nell’appena rilasciato Polybius.

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Reinventare un classico

Polybius, un nome leggendario con cui il buon Jeff ha scelto di identificare la sua ultima follia. Il mitologico coin-op che, si dice, fosse in grado di hackerare i cervelli degli ignari player, ipnotizzandoli grazie ad un subdolo meccanismo fatto di forme e colori intermittenti, è stata la dichiarata fonte di ispirazione di questo nuovo, folle shoot’em up. Un vero e proprio trip lisergico, una discesa allucinata ed allucinante nella contorta mente di Minter, in cui si alternano quasi senza soluzione di continuità gli elementi che, sin dagli albori, sono andati a costituire il suo modo di intendere il gaming. Polybius è questo, la perfetta e devastante summa di una carriera quasi quarantennale, figlio speciale di un’orgia che ha in Buck Rogers, Space Harrier, Rez e Attack of the Mutant Camels solo una minima parte degli allegri dispensatori di corredo genetico. Descriverlo in maniera schematica è un’operazione tutto sommato molto semplice, dato che in fondo non parliamo altro che di un “banale” shoot’em up in cui dovremo blastare qualsiasi allucinazione compaia a schermo, potendo spostare la nostra rozza navicella solo a destra e a sinistra. Le cose si fanno interessanti, però, una volta applicata al designa vomitato dalla intelletto di Minter. Arrivare indenni al termine di ciascuno dei 50 stage che costituiscono l’esperienza nota come Polybius, difatti, non è poi così agevole come potrebbe trasparire dalle mie parole: durante la nostra corsa per la vittoria saremo chiamati a percorrere alcuni speciali portali, la cui forma ricorda in maniera inequivocabile le corna di un bovino, che saranno indispensabili per garantire un incremento temporaneo di velocità; in aggiunta sarà possibile accedere ad alcuni bonus supplementari, come ricariche per gli scudi del mezzo, distorsori temporali o semplici moltiplicatori di punteggio. Niente che non si sia già visto, ovvio, ma se caliamo il tutto all’interno di stage dalla forma cilindrica o in cui potremo muoverci anche lungo le pareti verticali (e qua troviamo un Tempest 2000 pronto a ricordarci le gioie dell’amore libero!), altri in cui dovremo sfruttare particolari correnti in pieno stile platform per volteggiare sopra gli ostacoli (magari blastando un paio di mucche nel mentre), o magari sezioni in cui destreggiarsi come novelli sciatori tra alcune colonne colorate, appare evidente come Minter non si sia fatto scrupoli nel declinare in maniera sempre bizzarra e sorprendente un concept che risale agli albori del videogioco.

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Bello dentro

Si fa presto a dire che la grafica non è tutto, e a ben vedere il voto che svetta in fondo alla recensione viene difficile controbattere, ma a dispetto dell’apparente aspetto dimesso di Polybius si potrebbe intavolare una discussione assai articolata in merito al suo effettivo valore. Uno sguardo superficiale potrebbe fallacemente spingerci a bollare la produzione Llamasoft come l’ennesimo, scontatissimo e banale elogio di un’estetica fortunatamente legata al passato. Peccato che come tutte le esperienze debba essere vissuta in prima persona per carpirne l’elevatissima (ed insospettabile) cura realizzativa. Polybius, difatti, è un perfetto e consapevole figlio degli anni ’80 nato nel 2017, quasi come se la sua gestazione si fosse volutamente protrarre per decenni prima di dischiuderlo al mondo. La forza visiva del lavoro di Minter è assoluta e perfettamente calibrata per la particolare tipologia di proposta, oltre che un vero banco di prova per le potenzialità visive del PlayStation VR, ma anche degli oramai dimenticati televisori 3D. Sebbene possa tranquillamente essere giocato su di una pannello tradizionale, magari beneficando di una risoluzione Ultra HD, è grazie all’utilizzo del visore o degli appositi occhiali che Polybius è in grado di amplificare la propria potenza estetica: forme e colori ci saranno letteralmente vomitati addosso, un vortice allucinante in cui saremo proiettati a velocità smodata e da cui sarà impossibile uscire facilmente. La natura arcade del suo gameplay gode, difatti, dell’arcana forza che scaturisce dalla magica formula “ancora una e poi smetto”, capace di tenerci incollati al pad come se fossimo prigionieri di una bolla di stasi temporale. Qualunque sia la modalità di gioco che sceglieremo, tra le tre disponibili per quanto simili tra loro, Polybius saprà esercitare un fascino magnetico del tutto particolare, quasi come se fosse una sorta di benefico e legale allucinogeno mentale, in cui immagini fuori di testa si fondono in maniera sinestetica con una colonna sonora elettronica di indubbia qualità.

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Polybius è Minter in ogni suo byte e per chi conosce il designer inglese potrebbe già essere sufficiente questa breve descrizione per spingere all’acquisto. Espressione massima di una carriera pluridecennale, il titolo Llamasoft potrebbe trarre in inganno per “colpa” di un’estetica apparentemente insufficiente che, conoscendo l’autore, sarebbe stato impossibile immaginarsi diversamente. Ottimo liscio, Polybius spicca il volo se giocato in tridimensionalità, finendo per innalzarsi prepotente verso il cielo se vissuto all’interno delle confortevoli pareti del PlayStation VR. Fatevi un favore: lasciate il mondo fuori dalla porta e tuffatevi in questo assurdo viaggio all’interno di una mente forgiata dalla spuma del gaming.