Recensioni

Recensione Paradise Lost

di: Simone Cantini

Meglio regnare all’Inferno, che servire in Paradiso. Una semplice frase capace di condensare in una manciata di parole le tematiche del Paradiso Perduto, l’immortale capolavoro di John Milton che è stato capace di ispirare una variegata pletora di espressioni artistiche, siano esse testuali che visive. E non è certo un mistero che proprio dalle fondamenta del testo inglese abbiano preso spunto i polacchi di All In! Games, che con il loro Paradise Lost, già a partire dal titolo, sono pronti a raccontarci una storia in cui morte, solitudine e ribellione si fondono in maniera sicuramente convincente, dando vita ad un walking simulator dalle premesse senza dubbio intriganti, ma che finisce per smarrire la propria strada in modo quanto mai ingenuo.

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Nessun vincitore

Siamo agli inizi degli anni ’80 e la Seconda Guerra Mondiale non è terminata nel modo che tutti conosciamo: gli Stati Uniti non sono giunti in soccorso degli europei oppressi dalle forze naziste, ed il conflitto ha finito per trascinarsi ben oltre la fatidica data del 2 Settembre 1945. I combattimenti sono durati ancora per molti anni, in una situazione di stallo, finché un Reich oramai accerchiato decise di scatenare un devastante attacco nucleare sul finire degli anni ’60, facendo sprofondare l’Europa in un inverno eterno, spazzando via la vita dalla superficie. Non tutto però era perduto, dato che nel sottosuolo di Varsavia le forze naziste erano riuscite a portare a termine il Projekt Riese (Progetto Gigante, una vera opera fortunatamente mai completata), ovvero la costruzione di una serie di avamposti sotterranei, al cui interno avevano trovato rifugio le menti più brillanti della razza ariana, il cui compito sarebbe stato quello di prepararsi all’offensiva finale. Ed è proprio all’interno di uno di questi bunker che ritroviamo il giovanissimo Szymon, un ragazzino di 12 anni che, in seguito alla morte della madre, si ritroverà a seguire gli indizi presenti in una foto, alla ricerca di un uomo misterioso ritratto, anni fa, assieme alla defunta genitrice. Si apre così un viaggio scandito dalle 5 fasi dell’elaborazione del lutto (Negazione, Rabbia, Contrattazione, Depressione, Accettazione), che andranno a caratterizzare gli altrettanti capitoli in cui Paradise Lost sarà suddiviso. L’incedere di Szymon all’interno delle abbandonate strutture sotterranee servirà a tracciare i contorni di questa affascinante, per quanto oscura, ucronia, grazie ad una serie di documenti ed ambientazioni che saranno in grado di fornirci alcuni indizi in merito a questa linea temporale alternativa. Un viaggio che si snoderà lungo binari sicuramente interessanti, in cui non mancano certo alcune felici intuizioni, ma che purtroppo non riuscirà a mantenere sempre a fuoco i vari elementi gettati in pasto al giocatore. La vita all’interno del bunker, difatti, finirà per scivolare presto in secondo piano, non appena il ragazzino si imbatterà nella voce della misteriosa Ewa, una ragazzina rimasta bloccata all’interno di uno dei centri di comando della struttura, e che finirà per divenire molto presto la molla che spingerà Szymon ad attraversare gli orrori sotterranei della Varsavia post bellica, fino a giungere ad uno dei finali multipli messi in piedi da ragazzi di All In! Games. La narrazione, trattandosi di un walking simulator, ricopre ovviamente un ruolo di primaria importanza, e sotto questo punto di vista il lavoro svolto dal team polacco riesce sicuramente a mantenere desta l’attenzione, anche se alcune ingenuità in fase di scrittura hanno finito per sacrificare gli elementi collaterali del setting, che pur essendo sempre presenti e tangibili in ambientazioni e collezionabili, non riescono mai a trovare il loro giusto compimento, sacrificati in favore del viaggio materiale e psicologico di Szymon. Ribellione, morte, crudeli esperimenti e tecnologie alternative, finiscono per creare un quadro sicuramente convincente e credibile, in cui suggestioni a metà strada tra la Rapture di Bioshock e le atmosfere care a Metro la fanno da padrone, ma che mancano di quel guizzo in più capaci di rendere davvero indimenticabile il toccante racconto messo in piedi da Paradise Lost.

Dritti alla meta

Quando parlaimo di walking simulator, salvo alcune particolari eccezioni come What Remains of Edith Finch, viene davvero difficile intrattenersi a descrivere il gameplay, e Paradise Lost non fa nulla di particolare per sottrarsi a tale consuetudine. L’incedere è quanto mai guidato e lineare, privo di qualsiasi diramazione esplorativa, così come assai limitato è l’apporto attivo del giocatore, che si troverà sempicemente ad interagire con gli sparuti collezionabili, le scale ed alcuni congegni. Data l’assenza di puzzle o altre divagazioni, la struttura rimane confinata nei limiti di un film interattivo, con soltanto alcuni momenti, legati alla riproduzione di vicende passate della storia del bunker, che richiederanno una partecipazione più attiva. A sparigliare un poco le carte in tavola ci pensano delle piccole scelte, che serviranno a determinare uno dei vari epiloghi presenti nella produzione firmata All In! Games, e capaci di garantire un minimo di rigiocabilità supplementare alle circa 4-5 ore necessarie a giungere ai titoli di coda. Tecnicamente parlando, invece, il lavoro svolto si attesta su livelli sufficienti, anche se la modellazione generale e le varie animazioni risultino quanto mai grezze, con un quadro visivo che riesce a risollevarsi da una generale piattezza grazie ad uno stile quanto mai ispirato: il mondo sotterraneo tratteggiato dal team, difatti, risulta quanto mai vario e peculiare, cupamente affascinante nella sua crudele decadenza, oltre che capace di regalare intuizioni e scorci sicuramente suggestivi. Sono gli elementi di contorno a stonare in modo marcato, vedi un’interfaccia un po’ troppo abbozzata, oppure l’assenza di una qualsiasi forma di inventario tramite il quale poter ricontrollare i vari documenti raccolti durate l’avventura. Anche a livello puramente tecnico non mancano alcuni spigoli da smussare, che si traducono in piccoli scatti della scena, in sporadiche compenetrazioni ed in un paio di freeze dell’azione che mi hanno costretto a ricaricare il checkpoint. Niente di grave, vista la natura compassata del titolo (pure troppo, vista la lentezza esasperante con cui si muove Szymon). Di ben altra caratura il lavoro svolto sul versante audio, che oltre ad un convincente doppiaggio in inglese, vanta alcune composizioni musicali toccanti ed ispirate. Assente, ahinoi, la lingua italiana, ma l’inglese utilizzato è comunque di semplice comprensione, a patto di essere un minimo pratici.

Paradise Lost mi ha lasciato con un bel po’ di amaro in bocca una volta giunti ai titoli di coda: da amante quale sono delle ucronie post belliche, il setting messo in piedi dai ragazzi di All In! Games è riuscito a rapirmi in una manciata di minuti, ma ha finito ben presto per rimanere sacrificato sullo sfondo, lasciandomi con una voglia matta di saperne di più. Quello che resta, una volta archiviato il mondo alternativo tratteggiato dal team polacco, è una storia intima e personale, sicuramente arricchita da alcuni spunti interessanti, ma che si esaurisce in maniera un po’ troppo ingenua e, se si è avvezzi a simili narrazioni, anche in modo tutto sommato prevedibile. Al netto di questi difetti, comunque, attraversare i cupi cunicoli di questa Varsavia alternativa rimane un’esperienza piacevole, anche se un po’ troppo limitata e lineare. Di sicuro, viste le premesse, era lecito aspettarsi un qualche guizzo in più, ma se amate le avventure narrative, complice anche il prezzo tutto sommato contenuto, Paradise Lost potrebbe sicuramente rappresentare un piacevole diversivo.