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Recensione Final Fantasy XVI

di: Simone Cantini

Cosa rappresenta oggi, per Square Enix, la saga di Final Fantasy? Potrebbe sembrare una domanda quanto mai assurda, sia considerando la longevità del brand, sia il fatto che questa è una recensione. Eppure, proprio in virtù di quest’ultima condizione, il quesito posto in apertura assume un contorno meno banale e fuori fuoco di quanto potrebbe sembrare, data la natura assai divisiva di Final Fantasy XVI. La sedicesima fantasia finale, al centro di numerose polemiche sin dal suo primo trailer di annuncio, corroborate in parte anche dalla recente querelle con protagonista l’acquisizione di Activision da parte di Microsoft, non ha mancato di generare pareri quanto mai discordanti anche dopo essere approdata su PS5. Ed anche il sottoscritto, pur avendo in definitiva apprezzato, almeno a livello sfacciatamente personale, l’epica avventura di Clive e compagni, non ha potuto fare a meno di cadere con tutte le scarpe in quel calderone di contraddizioni che hanno contraddistinto il percorso critico e ludico del lavoro di Naoki Yoshida e soci, finendo con il ritrovarmi a tradire anche la mia radicata abitudine di assegnare voti esclusivamente per multipli di 5. I motivi di questa scelta? Beh, proverò ad illustrarli con questo malloppo di caratteri.

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Game of chrystals

Quello di Valisthea è un mondo cupo e fiaccato dalle guerre, preda di conflitti politici e sociali, in cui la magia può ricoprire tanto il ruolo di benedizione, quanto di condanna. Al vertice di questa suddivisione troviamo i Portatori, individui eletti che hanno il potere di controllare uno dei 10 Eikon, potenti divinità elementali. Il rovescio di questa dorata medaglia è rappresentato, invece, dai semplici e sfortunati Dominanti, ovvero coloro che sono in possesso di elementari capacità magiche. Emarginati e considerati maledetti sin dalla nascita, i Portatori sono visti alla stregua di semplici oggetti, utili unicamente per svolgere i lavori più umili e degradanti, sfruttati soltanto per le loro capacità considerate quasi blasfeme. Semplici giocattoli nelle mani dei più ricchi e potenti, da gettare via e rimpiazzare prontamente una volta esaurite le loro capacità, non appena la cosiddetta Maledizione dei Cristalli (un morbo che si manifesta man mano che si attinge al potere magico) li avrà definitivamente tramutati in pietra. È in questo mondo perennemente in bilico che faremo la conoscenza di Clive Rosfield, primogenito dell’arciduca di Rosaria (una delle potenze di Valisthea), e protettore di suo fratello minore Joshua, il futuro regnante nonché Dominante della Fenice. Legatissimo al padre, di cui ammira e sposa la volontà di rendere Valisthea un posto in cui chiunque possa scegliere come vivere e morire, il giovane finirà per essere testimone di un tradimento familiare, che porterà l’intera casata dei Rosfield alla rovina, e al suo conseguente reclutamento come marchiato (in quanto benedetto dal potere magico della Fenice) presso l’impero di Sanbreque. Sarà l’inizio di una vita fatta di privazioni, ordini ed uccisioni spietate, una lenta spirale di morte che finirà per subire un radicale scossone in occasione dell’ennesima missione al soldo delle forze imperiali, quando il proprio passato, incarnato dalla Dominante di Shiva, finirà per tornare a reclamare con prepotenza il retaggio dei Rosfield. Andare oltre con il tratteggiare i confini della sontuosa sceneggiatura che sorregge l’impianto narrativo sarebbe un crimine imperdonabile, dato che le circa 50 ore necessarie a giungere all’epico e straziante epilogo finirebbero per vedere limata in modo subdolo la loro debordante portata.

Sì, perché tra i picchi assoluti della produzione firmata Square Enix, non possiamo che annoverare la sua azzeccata scrittura, capace di dare vita ad un mondo credibile e spietato nella sua caratterizzazione cupamente dark fantasy, che sebbene non possa nascondere i suoi debiti nei confronti del Trono di Spade, riesce a regalarci un immaginario tanto potente quanto affascinante. Lontano dalle fiabesche ed oniriche atmosfere di Spira, come dai toni steampunk ecologisti di Gaia, Valisthea sembra quasi la versione più adulta e crudele della Ivalice resa indimenticabile da Final Fantasy Tactics. La lore imbastita dalla Creative Business Unit III del colosso giapponese, difatti, non si vergogna di dare vita ad un affresco umano spietato e barbaro, in cui non sembra esserci spazio alcuno per la speranza. Un territorio piagato dal razzismo e dalla disuguaglianza, in cui diabolici personaggi mossi dalle più bieche pulsioni possono decidere, in un battito di ciglia, il destino di migliaia di innocenti. E su cui incombe una minaccia ben più letale e implacabile della prevedibile e terrena crudeltà umana. In questo mondo alla deriva, mosso dal desiderio di dare una speranza a chiunque si trovi a calpestarne il suolo, si muove il nostro Clive, in quello che è un meraviglioso e straziante racconto corale, al cui interno si agitano decine di personaggi tratteggiati in modo impeccabile. Che si parli dell’affascinante caratterizzazione dell’idealista Cid, del leale ed umano Gav, della fragile ma combattiva Jill (tanto per citare 3 elementi cardine del racconto), quanto dello scaltro L’ubor o della spietata Anabella, ciascuno finisce per trovare il proprio posto in questo complesso mosaico, senza che si avvertano forzature di sorta, ma in modo splendidamente coerente ed efficace. Clive non è un eroe solitario ed invincibile, nonostante la sua natura di unico personaggio giocabile del titolo, ma ha solo il compito di essere il mezzo, scelto dal team di sviluppo, per raccontare l’impatto che ciascuno di questi individui avrà nell’economia generale del racconto, al punto che non ci sentiremo mai soli mentre inanelleremo una missione dopo l’altra, sino al raggiungimento degli agognati titoli di coda. È indubbio, pertanto, come la parte narrativa di Final Fantasy XVI raggiunga vette di eccellenza, grazie al suo cast di comprimari (per quanto questo termine sia assai riduttivo data la loro portata) e villain indimenticabili, che si sono dimostrati capaci di dare vita ad uno dei racconti più coesi ed affascinanti di questi 36 anni di storia della saga, declinando gli elementi canonici del proprio immaginario in una forma più matura del solito. La passione riversata in questo peculiare aspetto di Final Fantasy XVI, è testimoniata anche dalla presenza di una massiccia enciclopedia generale, accessibile tramite un peculiare NPC, in aggiunta al Time Active Lore, una meccanica che, mettendo in pausa il gioco, ci permetterà di avere informazioni dirette relative ai personaggi e agli argomenti in scena in quel momento.

È il turno dell’azione

A portare nuovamente in auge il quesito posto in apertura di recensione, una volta scagionata la sceneggiatura dell’opera, ci pensa il peculiare gameplay attorno a cui Yoshida ed il suo team hanno deciso di costruire la loro visione di Final Fantasy XVI. Per rispondere all’annosa domanda, posso limitarmi a citare la volontà espressa dal producer di voler rendere il titolo appetibile alla più vasta platea possibile, andando ad infrangere la barriera ruolistica tradizionale in favore di un approccio più diretto e frenetico, visto come la soluzione migliore per rendere il tutto più appetibile anche per le nuove generazioni. Sebbene si tratti di una dichiarazione che potrebbe far storcere la bocca ai fan più tradizionalisti (e lo ha fatto in abbondanza!), se contestualizzata all’interno di ciò che il brand Final Fantasy rappresenta per Square Enix, assume tutto un altro senso: parliamo, in soldoni, della serie più commerciale del pacchetto in forza al publisher giapponese, la vera testa di ponte delle sue produzioni ruolistiche che, vuoi per importanza che per costi, ha bisogno di raggiungere il più ampio numero di giocatori possibile. Detto e metabolizzato questo, quindi, la scelta operata dalla CBU III assume dei contorni molto meno sballati di quanto si potesse pensare. Purtroppo, però, la decisione presa non è stata supportata da delle intuizioni creative in grado di appoggiare il tutto a 360°, finendo per dare vita ad un gameplay sicuramente interessante, ma che risulta azzoppato in alcune dele sue sfaccettature. Nucleo centrale dell’esperienza, dato che ci troviamo al cospetto di una svolta prevalentemente action, è rappresentato dai combattimenti che Clive si troverà ad affrontare. Questi si baseranno sulla concatenazione di attacchi all’arma bianca e magie, a cui si aggiungerà la possibilità di sfruttare le capacità offensive e curative di Torgal, il lupo fedele compagno del nostro protagonista. I fendenti saranno sferrati premendo ripetutamente il tasto Quadrato, che potrà essere accompagnato da piccole esplosioni magiche legate alla pressione del pulsante Triangolo. Non sarà, purtroppo, possibile dare vita a peculiari combo, dato che lo schema di attacco rimarrà invariato per tutto il gioco, salvo qualche piccola divagazione marginale legata allo sviluppo delle skill di Clive.

La possibilità di variare le carte in tavola, pertanto, sarà legata alla capacità di sfruttare le abilità degli Eikon che potremo assorbire nel corso del gioco. Potremo equipaggiare sino a 3 spiriti contemporaneamente, ciascuno personalizzabile con 2 distinte abilità di attacco (attivabili premendo il dorsale destro ed uno dei pulsanti fontali del DualSense, e soggette a differenti cooldown) ed una di supporto (legata alla pressione di Cerchio). Dato che potremo alternare i vari loadout in ogni momento, abbinare l’impiego di tali incantesimi ai colpi di spada, potrà dare vita a situazioni altamente spettacolari e varie, sebbene (ahinoi) non siano presenti le canoniche affinità elementali: confesso, a tal proposito, confesso che abbattere un Piros a colpi di fiamme è stato decisamente stano. Naturalmente non poteva mancare il classico boost temporaneo, denominato Trascendenza, il cui indicatore si riempirà inanellando colpi su colpi. Ad ampliare il parco mosse troveremo anche il citato Torgal, a cui potremo impartire semplici ordini trami la croce direzionale. Il sistema, per quanto molto asciutto, alla fine della fiera funziona e diverte, anche se si trova a scontrarsi con veemenza con una difficoltà di fondo che, almeno nella prima run, si attesta su livelli quanto mai permissivi, complice anche l’abbondanza di pozioni curative che potremo utilizzare. A tal proposito trovo assai incomprensibile la decisione di relegare alla eventuale seconda run la possibilità di sbloccare il livello di sfida superiore che, sebbene non trasformi il tutto in un’esperienza proibitiva, apporta qualche benvenuto cambiamento nell’economia bellica generale. Al netto di ciò, comunque, l’obiettivo di dare vita a scontri sempre dinamici e spettacolari può definirsi riuscito, così come la volontà di assecondare la coralità del racconto, con un Clive che pur essendo sempre l’unico elemento controllabile direttamente, non ci farai mai avvertire in modo marcato tale situazione, complice la presenza di personaggi di supporto in quasi tutti combattimenti del pacchetto.

Quale ruolo per il ruolo?

Il voler premere forte sul pedale della pura azione, ha avuto come contraccolpo l’assai evidente ridimensionamento della componente puramente ruolistica di Final Fantasy XVI, sacrificando sull’altare dell’immediatezza la possibilità di personalizzare l’equipaggiamento di Clive in modo massiccio e variegato. Tale snellimento ha portato a limitare a tre slot armatura e due per gli accessori il meccanismo in questione, a cui si aggiunge la possibilità di cambiare la spada in nostro possesso. Purtroppo gli elementi disponibili, sia si parli di oggetti acquistabili che craftabili e potenziabili presso il nostro fabbro di fiducia, si riducono ad una esile manciata. A fiaccare il tutto, inoltre, ci pensa anche un impatto palpabile sulle varie statistiche assai effimero ed evanescente, che ci porterà a non notare chissà quali modifiche tra un setup e l’altro. Insomma, i tempi in cui ci divertivamo a destreggiarsi tra job, armi, armature e Materie sono oramai lontani. A non essere risicata ed incline alla parsimonia, invece, è risultata essere la mappa di gioco complessiva, costituita da una massiccia dose di location, caratterizzate da una buona varietà di biomi, oltre che da mappe dall’estensione sempre generosa. Salutato (fortunatamente, almeno a mio avviso) il maldestro tentativo di presentare una struttura open world che aveva caratterizzato l’episodio precedente, il team guidato da Naoki Yoshida ha optato saggiamente per macro aree, suddivise in vari settori, che potremo esplorare liberamente, sia a piedi che a bordo del nostro fidato Chocobo Ambrosia (a patto di averlo sbloccato tramite la missione secondaria dedicata). Un mondo di gioco tanto ampio ha permesso al team di dare vita a missioni principali assai corpose e longeve, sebbene molto lineari in quanto a svolgimento e struttura, ma anche caratterizzate da momenti galvanizzanti ed esaltanti al punto giusto.

Tali elementi vengono sublimati alla perfezione dalle spettacolari battaglie tra Eikon, che sebbene semplifichino in parte il già compatto combat system, hanno il pregio di rendere ancora più fisici e pesanti i colpi sferrati ai vari avversari. Oltre a non mancare di proporre qualche piccola divagazione che strizza l’occhio a Panzer Dragoon. A completare il quadro delle attività troviamo un corposissimo numero di side quest, purtroppo non tutte memorabili in quanto a svolgimento, caratterizzate da una struttura sin troppo ingessata, che non andrà mai ad abbracciare situazioni che varino dagli obiettivi di consegna o di sterminio di gruppi di nemici. Il che è un peccato, soprattutto in occasione delle missioni legate all’approfondimento del background dei nostri compagni di avventura, piccoli o grandi che siano, e che soprattutto nella parte finale della main quest non mancheranno di riservare qualche piacevole sorpresa in fase di scrittura. Tra le attività collaterali presenti, in aggiunta, troviamo alcune cacce a speciali e letali creature (che ci verranno assegnati dal buffissimo Moguri Nektar), oltre alle Sfide dei Cronoliti, speciali missioni a tempo che ci chiederanno di superare varie ondate di nemici sfruttando il potere di un singolo Eikon. Oltre a ciò, purtroppo, il mondo di gioco non propone molto altro, rendendo l’esplorazione delle ampie mappe più un viaggio fine a sé stesso, che utile al reperimento di particolari segreti.

Le sue prime parole…

Questo continuo alternare bastone e carota che pare animare ogni singolo elemento di Final Fantasy XVI, sceneggiatura esclusa, si applica anche al comparto tecnico della produzione, capace di mettere sul piatto momenti e situazioni eccellenti, ma anche cadute di tono assai incomprensibili e poco adatte ad una produzione di questo calibro. Se è vero che, nel complesso, il lavoro svolto in ambito estetico si attesti su livelli ottimi, complice un character design efficace, la direzione artistica del mondo di gioco coerente ed un’effettistica di primissimo livello, non mancano elementi in grado di far inarcare un sopracciglio in più di un’occasione. A saltare all’occhio sin dalla demo pubblicata prima del lancio, almeno per quanto mi riguarda, è stato l’effetto sfocatura dell’immagine che si percepisce in molteplici situazioni, primi tra tutti alcuni filmati in-engine. Non mancano, inoltre, personaggi ed elementi scenici che denotano una cura realizzativa notevolmente inferiore alla media complessiva, situazione che finisce per creare una fastidiosa discrepanza qualitativa ogni qualvolta ci troviamo ad interagire con loro. Lo stesso mondo di gioco alterna momenti visivamente splendidi, come alcune location del deserto del Velkroy, ad altre decisamente più piatte e sotto tono, come le pianure che circondano Rosaria. Promosso, invece, senza appello alcuno il design dei vari Eikon, capaci di restituire anche in seguito ad uno sguardo fuggevole, tutta la loro potenza distruttiva. Azzeccata e calzante anche la colonna sonora realizzata da Masayoshi Soken che, a parte un paio di colpi a vuoto decisamente fuori contesto, si è dimostrato capace di dare vita a partiture in grado di spaziare all’epico al malinconico in modo dannatamente efficace, oltre che in grado di omaggiare in più di una occasione la leggendaria melodia ad opera di Nobuo Uematsu, da cui tutto ebbe origine. Ed è impossibile non rimanere soddisfatti (salvo qualche rarissimo momento) dell’eccellente lavoro svolto in sede di doppiaggio, presente per la prima volta nella nostra lingua e che, sebbene non riesca a pareggiare la potenza espressiva del voice over originale, accompagna con estrema dignità ed efficacia le prime parole in italiano della serie.

Non so se, dopo oltre 2500 caratteri, sono riuscito a dare una risposta esaustiva alla domanda che ha aperto la recensione. L’unica certezza che ho, in seguito a tutte queste parole e alle 50 e più ore di gioco in compagnia di Clive, è quella di aver affrontato un viaggio indimenticabile e bellissimo che, tra i suoi molteplici alti e bassi, sono felice di aver portato a termine. Sebbene non ci si trovi al cospetto del miglior capitolo della serie, per i difetti elencati in precedenza, Final Fantasy XVI rappresenta un titolo dotato di un coraggio e di una coerenza che nessuna critica può mettere in discussione. Sicuramente più coeso e rifinito del suo travagliato predecessore, il lavoro di Yoshida paga il suo voler sdoganare ancor di più la saga presso una platea più ampia dei semplici appassionati. Il risultato, per quanto non perfetto, anzi decisamente perfettibile, non poteva che essere un titolo fortemente divisivo, che non potrà fare breccia senza riserve nel cuore degli appassionati di lunga data. In fondo, se in una fantasia finale l’elemento di maggiore spicco risulta essere la scrittura, è segno che non tutto è andato proprio per il verso giusto. Al netto di ciò, comunque, sarebbe quanto mai sciocco penalizzare in modo miope e tranchant questa nuova fase del brand Square Enix, che ha scelto consapevolmente (e bruscamente) di deviare dal suo canonico percorso, fatto di piccole variazioni ad ogni sua iterazione. Non sarà sicuramente il GOTY 2023 (mi spiace per i fanboy più incalliti), ma l’avventura di Clive, Cid, Gill, Torgal e tutti gli altri merita comunque tutto il vostro tempo ed il vostro affetto.