Recensione Final Fantasy 7 Rebirth
di: Simone CantiniSarebbe inutile negare l’entusiasmo dei fan quando venne annunciato, dopo millemila allusioni e speranze, il remake della settima Fantasia Finale. Così come potrebbe essere superfluo ricordare la delusione dei supporter più intransigenti una volta giunti alla fine della vecchia/nuova avventura di Cloud e compagni, spiazzati dai cambiamenti che il team di sviluppo aveva osato apportare alla tanto amata storyline originale. E con simili ricordi ben stampati in mente, è stato assai difficile avvicinarsi a Final Fantasy 7 Rebirth senza qualche logico pregiudizio. Fortuna vuole che, nonostante la direzione tracciata dal primo remake sia rimasta in pratica quasi immutata, ciò che è uscito dagli studi di Square Enix si è rivelato essere uno dei Final Fantasy più belli e completi di sempre. Oltre che uno dei migliori jrpg disponibili sul mercato, come proverò a spiegarvi nel corso della recensione.
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Una nuova speranza
C’è poco da girarci attorno, facendo finta di nulla: Final Fantasy 7 Rebirth tiene fede al suo titolo, e si propone come una rinascita della canonica storia che rese celebre il titolo uscito in origine su PS1, proponendoci una narrazione che, pur andando a toccare gli aspetti conosciuti da tutti, si prende le sue brave libertà. E qua sarebbe davvero superfluo e ridondante cercare di convincere i detrattori dell’operazione, i fan più intransigenti e reazionari, della bontà dell’operazione, che non va minimamente a minare quanto di buono fu fatti da SquareSoft nel lontano 1997. Nulla, difatti, potrà mai cancellare quanto giocato a suo tempo, che rimane ancora a disposizione di tutti i player del globo, che potranno tornare ad esplorare Gaia nella maniera che conoscono a menadito. Per chi, invece, riesce ad andare oltre a ricordi così radicati, posso solo dire che la nuova direzione intrapresa da questo inedito corso del classico jrpg ci offre una interessante rilettura del tutto, capace di far leva sui sentimenti sopiti dei fan, ma iniettando il tutto con nuovi punti di vista e snodi narrativi che, se accolti nell’ottica di una vera e propria rinascita del gioco, non potranno che appassionare chi è solo in cerca di un ottimo gioco. Piaccia o no, Final Fantasy 7 Rebirth è in tutto e per tutto figlio di quel Tetsuya Nomura capace di far arrabbiare come non mai gli appassionati, che non potranno mai perdonargli quel Versus XIII che mai fu e, in parte, quel quindicesimo capitolo che invece riuscì a vedere la luce.
Il nuovo viaggio di Cloud e compagni abbraccia a 360° la vena creativa del design giapponese, avviluppandosi su se stesso in più di un’occasione, divertendosi a dilatare il focus delle vicende in maniera compiaciuta, non lesinando esagerazioni e topoi tipici del suo modo di illustrare e dirigere i lavori. A non mancare, come già detto, saranno gli elementi cardine della narrazione, che in maniera più o meno canonica verranno tutti toccati nel gioco, ma anche ampliati in modo convincente e congruo alle nuove potenzialità del medium videoludico. Final Fantasy 7 Rebirth ci permette di approfondire la conoscenza di un cast di personaggi che credevamo di conoscere a menadito, regalandoci tratti nascosti della loro personalità e della loro storia, così da renderli ancora più credibili, reali e degni del nostro amore. Se inquadrato sotto questa luce, la volontà di proporre una versione alternativa dell’iconico settimo capitolo della saga, il lavoro Square Enix colpisce nel segno, presentandoci un remake vero e proprio, capace di ribaltare in parte non solo il comparto ludico/tecnico, ma anche la scrittura vera e propria. La discriminante, in questo caso, è solo la voglia del giocatore di accettare senza riserve questa scelta, mantenendo ben salda (come già detto) la convinzione che nessuna operazione potrà mai cancellare l’esperienza canonica.
Ritmo, ritmo! (cit.)
Passare dal gameplay del remake precedente a Final Fantasy 7 Rebirth sarà sicuramente indolore, a patto di aver accettato quanto scritto poco sopra. L’abbandono dei classici combattimenti a turni, oramai un chiaro segnale del nuovo corso della serie, non deve essere visto come un imperdonabile tradimento (e a dirlo è chi adora un simile setup), soprattutto quando si entra in contatto con il combat system del titolo: ci troviamo al cospetto di una evoluzione nettamente migliorata di quanto giocato qualche anno fa su PS4, che pur non rinunciando alla sua struttura maggiormente incentrata sulla pura azione, lascia ampio margine per la pianificazione strategica degli scontri. Ancora una volta avremo il controllo diretto di un solo personaggio alla volta, dei tre del party, che inanellando attacco e difesa andrà a riempire la nota barra ATB, indispensabile per scatenare magie ed abilità. Sarà però indispensabile switchare alla bisogna tra gli altri membri della squadra, così da sfruttare le skill uniche e gli stili di lotta peculiari di ciascuno di loro, tanto per sfruttare al meglio le debolezze degli avversari, quanto per caricare l’iconica barra Limit, ma anche per attivare gli attacchi sinergici. Si tratta di mosse che coinvolgeranno due membri del party e che avranno vari effetti peculiari a seconda delle combinazioni del caso. Naturalmente non potranno mancare le evocazioni, che ancora una volta scenderanno in campo come NPC in parte controllabili dal giocatore, che però ci dovremo guadagnare completando le missioni di esplorazione del mondo che ci verranno assegnate da Chadley, e che sbloccheranno il relativo combattimento contro l’Esper di turno all’interno del simulatore di lotta.
Ed è qua che entra in gioco la struttura oper world di Final Fantasy 7 Rebirth, che esaspera all’ennesima potenza la sensazione di libertà che si respirava su PS1 all’inserimento del secondo disco di gioco una volta lasciata Midgar. Tutto sarà suddiviso in macroaree liberamente esplorabili, tanto a piedi quanto in sella ad un Chocobo (o altro che vi lascio il piacere di scoprire), che ricalcano in parte l’esperienza vissuta in Ghost of Tsushima, tra torri da attivare, santuari da scoprire e molto ancora. Un’esplorazione che, però, non sarà mai fine a sé stessa, ma avrà la duplice valenza di intrattenere il giocatore, ma anche di andare a completare i vari dossier di Chadley. Farlo ci ricompenserà con nuove sfide, in grado di elargire risorse e materie non reperibili in altro modo, un escamotage utile a collegare progressione e sense of wonder in maniera assai marcata. E questa voglia di proporre al giocatore un corposo numero di attività va anche ad impattare su quello che è, forse, l’aspetto più interessante e riuscito del titolo Square Enix, ovvero il ritmo di gioco. Uno degli aspetti più criticati di sempre nei jrpg, da parte dei non appassionati (ma anche da una fetta di questi ultimi) è da sempre legato alla loro intrinseca ripetitività, che ruota tutta attorno ad esplorazione e combattimenti, con pochissime divagazioni. Nel caso di Final Fantasy 7 Rebirth, a sorprendere in positivo, dopo un avvito tutto sommato canonico e anche un po’ banale, è la volontà di spezzare questo circolo vizioso per mezzo di trovate ludiche sempre differenti che, per mezzo di vere e proprie modifiche di gameplay in odor di minigiochi, vanno a squassare la monotonia del loop di gameplay. Basta pensare alla porzione ambientata a Costa del Sol, oppure agli eventi narrati all’interno dello scintillante casinò di Gold Saucer per rendersi conto di questa voglia di non adagiarsi sugli allori e tenere sempre vigile l’attenzione del giocatore. Nulla sembra essere accessorio nel mondo in cui ci muoviamo, al punto che anche quelli che vengono presentati come vere e proprie digressioni, come nel caso dell’eccellente gioco di carte Regina Scarlatta, finiscono per diventare dei veri Inception videoludici, grazie a storyline parallele sempre avvincenti ed interessanti.
Una voglia di mutare continuamente prospettiva che ha finito per ribaltarsi anche nella gestione del party, lontana anni luce dal rischio di lasciarci coltivare in maniera esclusiva un numero assai ristretto di beniamini. Altro colpo di classe del gioco, difatti, è il costringerci dolcemente a sperimentare ognuno di loro in momenti differenti del gioco, grazie a delle coerenti trovate di sceneggiatura, così da permetterci di tastare con mano le differenti potenzialità di Cloud, Tifa, Barret e tutti gli altri. Una trovata che ha anche il vantaggio di costringerci a sperimentare nuove possibilità di approccio alla lotta, e giocare con gli skill tree dedicati che ne caratterizzano lo sviluppo, senza però che nessuno di loro venga mai lasciato in disparte, così da non doverci mai trovare impreparati al cospetto di ogni potenziale minaccia. Tutto bello e raggiante sotto la luce del sole? Beh, difficile fare centro ad ogni colpo al cospetto di tanta abbondanza, visto che non mancano elementi che, giocoforza, hanno finito per risultare un pelo più deboli del resto. Mi riferisco ai trascurabili momenti stealth, legati per lo più alla cattura dei vari Chocobo selvaggi, ma anche a qualche subquest non sempre capace di andare oltre l’abusato canovaccio ricerca/consegna. Fortunatamente, però, si tratta di momenti assai sparuti all’interno di un caleidoscopico mosaico di opportunità ludiche di pregevolissima fattura.
Luce dei miei occhi?
Purtroppo, però, i difetti di Final Fantasy 7 Rebirth non si esauriscono certo in queste piccolezze, ma vanno anche ad impattare su di un elemento che, almeno a mio modesto parere, mai mi sarei aspettato di criticare in un’opera di tale importanza: sto parlando dell’aspetto tecnico, invero una delle più macroscopiche criticità del lavoro firmato Square Enix. I primi sentori di un’estetica non certo impeccabile erano già emersi in occasione del lancio della demo, dubbi che hanno finito per trovare conferma all’interno della release ufficiale. Sia che si scelga di prediligere le prestazioni, che si opti per dare priorità alla qualità, l’impatto visivo risulterà assai sottotono, complice una pochezza di vari elementi che, ad una analisi più attenta, non possono che far storcere la bocca. Si tratta prevalentemente di texture dalla qualità semplicemente inaccettabile per un titolo destinato a PS5, slavate e dai dettagli sin troppo elementari. Non mancano, inoltre, evidenti episodi di pop-up di elementi, oltre ad una risoluzione assai castrata in modalità performance, che si trasforma in un frame rate pessimo quando a scendere in campo e la qualità visiva. Rivedibile in tutto e per tutto, inoltre, è la sballata gestione delle luminosità, che in più di un frangente sembra incapace di gestire le variazioni di location, alternando porzioni in cui è quasi impossibile vedere cosa ci circonda, ad altre in cui pare di essere improvvisamente ospiti di una trasmissione di Barbara d’Urso, vista l’eccessiva luminosità della scena.
A salvare la baracca, pertanto, ci ha pensato una direzione artistica semplicemente fenomenale, capace di lasciare a bocca aperta in più di un’occasione, a patto di soffermarsi sull’insieme piuttosto che sui dettagli. A svettare senza riserve, inoltre, sono i modelli dei personaggi principali e delle creature più importanti, semplicemente splendidi per fattura e caratterizzazione, capaci di raggiungere vette espressive a tratti fuori parametro, ovviamente in relazione al design generale della produzione. Notevolissimo anche l’impegno profuso nei confronti del comparto audio che, come prevedibile, può vantare un doppiaggio giapponese semplicemente perfetto, in grado di esaltare e sottolineare il carattere di ciascun personaggio e far emergere con chiarezza e puntualità ogni loro emozione. Ottimo e rispettoso anche il lavoro svolto nei confronti della soundtrack che, in aggiunta alla rivisitazione di parte degli storici brani originali, ha accompagnato una tracklist nuova di zecca, anche in questo caso (quasi) sempre calzante e coerente con le vicende presenti sullo schermo. Naturalmente è tutto localizzato a livello testuale, pur con qualche libertà di adattamento, nella nostra lingua.
Non ho certo la pretesa di avere la verità in tasca, ma di una cosa sono sicuro: se siete contrari a prescindere al modo in cui Square Enix ha deciso di gestire questo spinoso trittico di remake, questa recensione non sarà certo riuscita a farvi cambiare idea in merito a Final Fantasy 7 Rebirth. Il che, per quanto sia lecito rispettare ogni opinione, penso sia un vero peccato, oltre che ingiusto verso Nomura e compagnia, che sono stati capaci di regalarci un’esperienza ruolistica avvincente e di assoluto spessore. Pur con le sue brave libertà, sdoganate sin dalla prima comparsa dei Numen nel precedente episodio, l’avventura di Cloud si presenta all’appello in forma ludicamente smagliante, grazie ad un combat system dinamico e divertente a cui si accompagna una struttura assai varia, capace di mantenere sempre ben salda l’attenzione del giocatore. Certo, le storture tecniche restano un neo neppure troppo marginale, ma finiscono comunque per passare in secondo piano al cospetto della cura quasi maniacale con cui il pacchetto è stato confezionato, capace come è di regalare un centinaio di ore di assoluto divertimento. Criticatelo pure, se volete, ma perdervelo equivale a rinunciare consapevolmente ad uno dei Final Fantasy più belli ed interessanti di sempre, oltre che ad uno dei jrpg più completi e sfaccettati con cui potreste mai incrociare il pad. Io la mia l’ho detta, ora la palla passa a voi…