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Recensione Dragon Quest Heroes

Immobilismo è una parola che ben si sposa con il panorama videoludico nipponico, sin dagli albori ancorato a meccaniche e tipologie oramai avviluppate su loro stesse. Tra queste ritroviamo il genere dei musou, action caratterizzati da un button mashing quasi sempre privo di personalità e profondità che, di iterazione in iterazione, pur cambiando ambientazioni e saghe di riferimento, si è sempre rivelato un mero reskin dell’idea partorita dai ragazzi di Omega Force. Per questo motivo avevo accolto con sufficienza l’annuncio di Dragon Quest Heroes: L’Albero del Mondo e le Radici del Male (d’ora in poi solo Dragon Quest Heroes, che il titolo completo è sfiancante da scrivere): mi aspettavo l’ennesima operazione copia/incolla, ambientata nell’universo dell’omonima saga ruolistica (anche essa non certo incline ai mutamenti), priva di appeal e di guizzi creativi. E solo il dio dei videogiochi può sapere quanto mi sbagliassi.

di: Simone Cantini

Immobilismo è una parola che ben si sposa con il panorama videoludico nipponico, sin dagli albori ancorato a meccaniche e tipologie oramai avviluppate su loro stesse. Tra queste ritroviamo il genere dei musou, action caratterizzati da un button mashing quasi sempre privo di personalità e profondità che, di iterazione in iterazione, pur cambiando ambientazioni e saghe di riferimento, si è sempre rivelato un mero reskin dell’idea partorita dai ragazzi di Omega Force. Per questo motivo avevo accolto con sufficienza l’annuncio di Dragon Quest Heroes: L’Albero del Mondo e le Radici del Male (d’ora in poi solo Dragon Quest Heroes, che il titolo completo è sfiancante da scrivere): mi aspettavo l’ennesima operazione copia/incolla, ambientata nell’universo dell’omonima saga ruolistica (anche essa non certo incline ai mutamenti), priva di appeal e di guizzi creativi. E solo il dio dei videogiochi può sapere quanto mi sbagliassi.

JRMG: Japan Role Musou Game

Dai, non può essere un caso se la saga di casa Enix in America è da sempre conosciuta con il nome di Dragon Warriors: sembra quasi una scelta profetica, come se il popolo d’oltreoceano avesse già capito che un giorno avremmo potuto mettere le mani su Dragon Quest Heroes. Ma andiamo con ordine, partendo innanzitutto dalla storia, che pare uscita di peso dalla serie creata da Yuji Horii: mostri e umani hanno da sempre vissuto in armonia nel regno di Arba, cooperando gli uni con gli altri. Tutto cambia, però, quando le creature iniziano improvvisamente ad attaccare i loro antichi amici: toccherà dunque ai due capitani di re DoricLucyus e Aurora, imbarcarsi in un’avventura che li porterà a visitare il reame in lungo e in largo, venendo a conoscenza delle loro antiche origini di Guerrieri della Luce, una stirpe da secoli chiamata a fronteggiare le forze dell’Oscurità. Temi classici, da sempre cari alla serie di jrpg in questione, che faranno sentire subito a loro agio tutti gli abituè, che gradiranno senza dubbio il nutrito cast di personaggi giocabili, tra i quali figureranno numerosi character provenienti da alcuni degli episodi più famosi del franchise. Fortunatamente quella che potrebbe in apparenza sembrare una mera operazione di fan service spudorato si è rivelata, alla fine dei fatti, un’idea ben realizzata e capace di costituire un vero punto di forza, grazie alla loro perfetta integrazione nel cast e nelle meccaniche ludiche. Queste fondono alla perfezione i punti di forza dei vari Dragon Quest e Dynasty Warriors: tutta la parte logistica, legata alla crescita del party, gestione degli equipaggiamenti, creazione di artefatti, side quest e quanto altro di ruolistico si possa chiedere ad un degno episodio della saga caratterizzata dalla cura artistica di Akira Toriyama è qui fortemente presente, oltre che ottimamente realizzata. Ci troviamo, difatti, al cospetto di una solida struttura jrpg che non ha nulla da invidiare agli esponenti più blasonati del genere. Tutto cambia quando ci troviamo a scendere sul campo di battaglia, quando ogni cosa si trasforma nell’action ideato da Omega Force: preparatevi dunque ad affrontare orde copiose di creature tramite un party formato da quattro personaggi, il cui controllo è liberamente switchabile in tempo reale, ognuno dotato di combo e caratteristiche di offesa e difesa peculiari. E qua ci caliamo con prepotenza nei tòpoi cari a Dynasty Warriors e compagnia, però rinnovati e limati attorno a meccaniche ruolistiche che, non a caso, fanno ben presto dimenticare di trovarci al cospetto di sezioni musou. Sarà grazie ad un riuscito mix di attacchi corpo a corpo, incantesimi liberamente potenziabili, finisher spettacolari oppure semplicemente ad un character design capace di calarci facilmente all’interno delle fiabesche atmosfere di Dragon Quest. Questa rinnovata gestione degli scontri, oltre che a livello di controlli e meccaniche, è corroborata anche da alcune interessanti novità. Tra queste merita una menzione la possibilità di assoldare tra le nostre fila i mostri avversari: sconfiggerli, difatti, oltre a rilasciare oggetti utili al crafing, può generare delle medaglie che, una volta raccolte, ci permetteranno di evocare la creatura su di essa raffigurata. Ovviamente ogni essere sarà dotato di caratteristiche e forza differenti e lo scegliere saggiamente quale impiegare e quale congedare (il numero di slot disponibili è difatti limitato, seppur si possa ampliare completando le varie subquest) potrà fare la differenza durante gli scontri. Difatti questi, oltre a richiedere l’eliminazione di tutte le forze avversarie, talvolta saranno regolati da elementi cari ai tower defence e chiederanno di proteggere strutture o personaggi: è in questi casi che il piazzamento in zone strategiche dei mostri si rivelerà fondamentale. Nel caso delle mappe più ampie, inoltre, sarà possibile attivate degli spot di teletrasporto, che ci permetteranno di intervenire liberamente e con estrema rapidità nelle zone più calde della battaglia. La cura riposta nella produzione, pad alla mano, si è dunque rivelata davvero elevata e l’operazione di fusione di due generi e saghe profondamente differenti tra loro si è rivelata quanto mai esemplare: ci troviamo, difatti, al cospetto di un ottimo episodio di Dragon Quest (e la mano di Yuji Horii, anche qua game director, si sente tutta) e contemporaneamente in presenza del miglior musou degli ultimi anni.

Cure amorevoli

Nonostante il nome Square Enix campeggi dietro la produzione di questo Dragon Quest Heroes, di certo il comparto tecnico del gioco non brilla eccessivamente, vuoi anche per la natura crossgenerazionale del tutto. Ciò nonostante, in virtù del già citato lavoro di caratterizzazione curato da Toriyama-san, la resa visiva è comunque gradevole e degna di un colpo d’occhio più che soddisfacente. Ottimo anche l’engine, che si è dimostrato capace di gestire un quantitativo di personaggi su schermo considerevole, seppur inferiore a quanto ci abbia abituato Omega Force: tale aspetto è comunque compensato da una migliore realizzazione estetica degli avversari, oltre che alla loro maggiore resistenza ai fendenti. Il sonoro, curato dal veterano Koichi Sugiyama, farà invece la gioia dei puristi di Dragon Quest grazie alla presenza di numerosi brani storici. A voler cercare il pelo nell’uovo posso solo lamentarmi dell’eccessiva legnosità dei vari menu di gioco, anche se a ben vedere questo è da sempre uno dei punti deboli dell’opera di Horii, unità ad una ripetitività di fondo che, nonostante boss opzionali e subquest, rischia di fare capolino. Anche in questo caso, però, bisogna riconoscere come sia un elemento comune a jrpg e musou, sicchè non mi sento di bollarla come difetto imperdonabile. Leggermente inferiore al solito la longevità che, se ci limiteremo a portare a termine solo la campagna principale, si attesta attorno alle 18 ore. Ovviamente tutto cambia se sceglieremo di svolgere tutti gli incarichi opzionali e desidereremo entrare in possesso di tutte le Minimedaglie.


Lo confesso, non avrei scommesso un centesimo su questo Dragon Quest Heroes. Sin dall’annuncio non avevo esitato a bollarlo come l’ennesima operazione di fan service di gusto strettamente nipponico, complice anche l’adesione ad un genere, quello dei musou, da sempre avido di guizzi e rivoluzioni. Ebbene, alla luce di quanto giocato non posso fare altro che cospargermi, vergognosamente, il capo di cenere: prendendo quanto di buono hanno da dire le due saghe di ispirazione, il titolo di Omega Force ha dimostrato che anche un mercato immobile come quello nipponico, se stimolato e corroborato da produzioni ben curate, può ancora dire la sua.