
Recensione Death Stranding 2: On the Beach
di: Simone CantiniSi potrà non essere fan (sfegatati o meno) e non apprezzare il suo modo di intendere il medium videoludico, ma negare come il settore si fermi, metaforicamente parlando, ogni volta che Hideo Kojima conferma di essere al lavoro su di un nuovo titolo, evidenzierebbe unicamente una perfetta malafede. Piaccia o no, il designer nipponico si è sempre dimostrato in grado di offrire una visione decisamente personale, oltre che capace di riscrivere regole che credevamo oramai saldamente codificate. Senza andare a scomodare Metal Gear Solid, un esempio di questa sua abilità si era visto nel titolo immediatamente precedente a Death Stranding 2: On the Beach, che attorno ad un concept ludico assai peculiare (e poco telegenico), era riuscito a costruire un titolo davvero memorabile sotto molti punti di vista. Non stupisce, quindi, il domandarsi cosa il buon Hideo sia riuscito ad inventare per questo atteso sequel: sarà stato in grado di confermare, ancora una volta, il suo stato semidivino?

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Connessione spezzata
Difficile parlare di Death Stranding 2: On the Beach senza incorrere nel rischio di perniciosi spoiler, mai così deleteri come nel caso dei lavori di Hideo Kojima. Pertanto, mi limiterò al minimo indispensabile, partendo dal dire che le vicende del gioco si svolgono 11 mesi dopo la conclusione del capitolo precedente, con Sam e Lou che si sono ritirati ai confini del Messico, una volta tagliati i ponti (ah ah) con la Bridges. Intento a vivere quella vita da padre negatagli dagli eventi che oramai dovremmo conoscere a menadito, la quotidianità a base di pappine e pannolini viene interrotta dall’arrivo di Fragile, che chiede al nostro corriere di accettare un ultimo incarico per la nuova compagnia da lei fondata: collegare alla rete chirale alcuni avamposti in territorio messicano.

Un lavoro da nulla per uno come lui, ma che finirà per assumere i risvolti di una vera e propria tragedia, capace di spazzare via tutte le certezze faticosamente conquistate. I drammatici eventi offriranno all’uomo l’occasione per unirsi alla Drawbridge di Fragile, vedendo nel bisogno di riconnettere l’Australia una sorta di mero palliativo al dolore accumulato. Tra nuove e vecchie conoscenze, prenderà il via un viaggio fatto di pianificazioni e consegne, capace di tenerci incollati al pad per una quarantina abbondante di ore, grazie ad un corposo numero di missioni tra cui districarsi.

Inciampi di percorso
Sembra strano a dirsi, visto i nomi coinvolti in Death Stranding 2: On the Beach, ma è giusto togliersi subito il dente: la sceneggiatura della produzione targata Kojima Production è, senza dubbio, il punto più debole dell’intera operazione, a causa della sua incapacità di scollarsi da un canovaccio che odora di già visto da miglia di distanza. Al di là del pretesto narrativo che dà il via al nuovo viaggio di Sam, la struttura narrativa appare troppo simile al suo predecessore per stupire a dovere, complice anche la caduta di ogni mistero che aveva caratterizzato il mondo di gioco ai tempi (2019) sconosciuto.

A mancare, difatti, è il sense of wonder che aveva accompagnato il viaggio di Sam attraverso gli Stati Uniti, il fascino di scoprire la natura delle CA e dei BB, così come il ruolo dei personaggi che ne avevano accompagnato la missione. Un altro problema, e anche qua appare quanto mai stonata la cosa, è da ritrovare nel cast di comprimari che conosceremo una volta a bordo della DHV Magellan, il rinnovato HUB centrale, incapaci di lasciare un segno indelebile sullo schermo. Gran parte della colpa è da ritrovare nel modo assai frammentario in cui la sceneggiatura si dipana dinanzi al giocatore, incapace di mostrare uno sviluppo organico e fluido, ed optando per una improvvida scelta a base di scene sin troppo scollegate tra di loro.

Il che è un peccato, visto che il materiale umano (e non) a disposizione aveva tutte le carte in regola per regalarci emozioni alquanto differenti. Per come tutto è messo in scena, invece, a latitare è la dovuta caratterizzazione di ciascun volto nuovo, così come la qualità del tempo scenico da loro occupato, fattore davvero inaspettato visto che parliamo di Hideo Kojima. E dire che le storie che ci vengono presentate avrebbero anche tutto il potenziale per lasciare il segno, ma una volta confrontate con i racconti che si erano intrecciati al plot portante nel primo Death Stranding (chi ha detto Mama?), non possono che uscirne alquanto ridimensionate.

Naturalmente simili parole vanno anche pesate, ed è innegabile come il problema principale di Death Stranding 2: On the Beach sia l’esistenza del suo ingombrante predecessore, capace di sminuire la portata di una sceneggiatura che, se confrontata con altre produzioni analoghe, è comunque superiore alla media di una dose abbondante di spanne. E l’abilità indiscussa di Kojima nel creare storie si avverte nelle scoppiettanti fasi finali, che ci accompagnano sino ad una conclusione (questa sì) davvero magistrale, capace di rimanere impressa per trovate visive e ludiche inaspettate. Al buon Hideo piace stupire, e l’ultimissima porzione di gioco mette sul piatto genio e sregolatezza senza soluzione di continuità, in un turbinio di eventi che ci spingono a fare idealmente pace con le mancanze notate in precedenza. Se solo tutto fosse stato su questo livello…

Sam suona sempre due volte
Se è vero che sul fronte della pura scrittura, il nuovo lavoro di Kojima Productions compie un evidente balzo indietro, è sugli aspetti puramente ludici che si registrano delle migliorie massicce e alquanto impattanti (in senso strettamente positivo, sia chiaro). Senza girarci troppo attorno, il gameplay di Death Stranding 2: On the Beach migliora sotto ogni punto di vista quanto giocato a partire dall’oramai lontano 2019. Se l’ossatura di meccaniche è rimasta, fortunatamente, inalterata, è il modo in cui è possibile approcciarsi ad essa ad aver subito un’impennata qualitativa di assoluto spessore.

Tutto ruoterà sempre attorno alla necessità di effettuare consegne, un’idea che appare davvero in antitesi con il concetto di divertimento videoludico, ma che pad alla mano dimostra ancora una volta come Death Stranding 2: On the Beach sia uno dei pochi titoli più divertenti da giocare che da vedere. Tornano di prepotenza le meccaniche di gestione del nostro carico, così come la necessità di pianificare a dovere i percorsi, indispensabile per ottimizzare le nostre forze e risorse, ma tutto risulta più morbido da approcciare rispetto al passato, complice anche l’esperienza maturata da Sam nell’avventura precedente.

Difficile, difatti, non ritrovare nella possibilità di accedere quasi immediatamente ai mezzi di trasporto una vera boccata d’aria fresca, da sola capace di mitigare l’apparente frustrazione nata dal ritrovarsi a percorrere a piedi kilometri su kilometri con un pesante fardello sulle spalle. Naturalmente una simile mano tesa non ha annullato del tutto la necessità degli spostamenti classici, che restano comunque uno dei nodi cardine dell’esperienza, ma è innegabile come Kojima abbia deciso di rendere il tutto più accessibile e meno stancante. Come dimostrano anche le nuove possibilità di locomozione a cui è possibile accedere tramite pazienti lavori di restauro, o anche solo la possibilità di poter usufruire del viaggio rapido (non sempre e per tutte le destinazioni) tramite la DHV Magellan.

Corda o bastone?
Uno dei maggiori difetti riscontrati nell’originale Death Stranding era relativo al sistema di combattimento non proprio esaltante, che mostrava i suoi punti deboli soprattutto in occasione degli scontri con i boss. Bene, dimenticate pure i brutti ricordi, dato che adesso lottare e sparare in Death Stranding 2: On the Beach è un vero e proprio spasso, a prescindere dalle situazioni. Ad un combat system ampliato e migliorato, si accompagnate un gunplay finalmente all’altezza della situazione che, unitamente allo sterminato numero di gadget ed armi a cui è possibile accedere, riescono a conferire uno sprint in più al nostro approccio al mondo di gioco.

Impossibile non notare una libertà impensabile nel precedente episodio, adesso capace di strizzare con veemenza l’occhio ad un Phantom Pain che Kojima non si è risparmiato neppure il lusso di citare in uno dei dialoghi di gioco, seppur in maniera non proprio palese. A patto di avere l’attrezzatura necessaria, nulla ci vieterà di giocare completamente in modalità stealth, quanto di lanciarsi nella mischia a suon di proiettili, oppure di cecchinare dalla distanza chiunque ostacoli il nostro cammino. Questi benvenuti passi avanti sono palpabili durante gli scontri con i giganteschi boss, finalmente un piacere da affrontare, così come (soprattutto) nelle porzioni che avranno al centro il Neil interpretato dal nostro Luca Marinelli, davvero indimenticabili per costruzione, sia ludica che scenica.

Questo vento di rinnovamento ci regala, quindi, un gioco appassionante da vivere e giocare che, se ci lasceremo conquistare dal suo peculiare e personalissimo gameplay, risulterà davvero ostico accantonare con leggerezza: la voglia di conoscere quel Prepper sperduto chissà dove, o anche solo di ricostruire una strada in rovina saprà sempre fare capolino, sussurrandoci suadentemente di non mollare il pad.

Desolante bellezza
E tanto di questo fascino è da trovare in una ambientazione nuova di zecca, che si è rivelata capace di ampliare ulteriormente l’impatto che il mondo di gioco ha effettivamente sull’aspetto ludico. L’Australia che saremo chiamati a riconnettere, difatti, presenterà una varietà di biomi capaci di spazzare via la desolante bellezza degli Stati Uniti che hanno visto muovere a Sam i primi passi: tra porzioni rocciose, deserti, zone boscose e persino montagne innevate, c’è davvero di che rimanere più di una volta a bocca aperta, oltre alla necessità di variare il nostro approccio in base al tipo di territorio che saremo chiamati a dominare.

E che l’ambiente sia un vero e proprio elemento ludico ce lo dimostra anche il modo in cui cambierà dinamicamente al nostro passaggio, vuoi per una cronopioggia improvvisa capace di far ingrossare il corso dei fiumi, o per una tempesta di sabbia in grado di rendere impossibile orientarsi, o magari per una violenta valanga, pronta a travolgerci quando meno ce lo aspettiamo. Tali cambiamenti, comunque, non saranno sempre ostili, ma sapranno anche fornirci un valido aiuto, visto come il percorrere più volte determinate strade riesce a trasformare un percorso accidentato in un vero e proprio sentiero battuto.

Forte, in tal senso, è anche l’apporto del peculiare multiplayer asincrono che, ancora una volta, ci accompagnerà durante l’avventura e che saprà farci sentire sempre meno soli di quello che potrebbe sembrare ad un primo sguardo. L’interazione con gli altri player, per mezzo di strutture condivise, semplici cartelli di incoraggiamento o vere e proprie richieste di aiuto, resta un vero fiore all’occhiello di Death Stranding 2: On the Beach, capace da sola di rendere tangibile e ludicamente rilevante quel concetto di connessione che permea ogni anfratto dell’opera di Kojima.

Qualità senza compromessi
Un mondo così particolare, però, finirebbe per perdere buona parte del proprio fascino se non fosse accompagnato da una realizzazione tecnica degna di questo nome e, a tal proposito, c’è solo da togliersi il cappello dinanzi al modo in cui Kojima Productions (e gli studi di supporto) sono riusciti a sfruttare il Decima Engine realizzato da Guerrilla Games. Il motore del team interno Sony, difatti, si è rivelato ancora una volta un vero e proprio mostro, capace tanto di garantire un colpo d’occhio assolutamente spettacolare, oltre che una impeccabile gestione di particellari ed effetti luminosi, senza per questo sacrificare dettaglio e fluidità.

Per quanto apparentemente vuoto e desolato, l’ambiente di gioco gode di un fascino oscuro e suadente, permeato come è di una palpabile e perenne malinconia, figlia di una direzione artistica assolutamente fenomenale. Tanto è merito di un Yoji Shinkawa in stato di grazia, che è stato ancora una volta capace di regalarci un cast di personaggi e mezzi visivamente meravigliosi ed indimenticabili. Ma stupire in generale è anche la cura maniacale per il dettaglio che permea ogni elemento, sia la pelle di Sam capace di reagire agli agenti atmosferici, sia elementi meccanici apparentemente trascurabili (basta pensare a come si adattano le ruote della motocicletta ai terreni accidentati), ma che contribuiscono a rendere il tutto così vivo e credibile.

Ad un passo dal cinema
Un plauso va poi tributato alla recitazione digitale, capace di settare nuovi standard in fatto di motion capture e resa sullo schermo: tutti gli attori sono perfettamente riconoscibili nelle loro controparti digitali, e godono di un range espressivo davvero impressionante, oltre a rasentare il fotorealismo in più di un’occasione. Sarebbe ridondante, in tal senso, spendere parole in merito ai nomi coinvolti, segno di come Kojima abbia oramai una potenza di fuoco impressionante in quanto a capacità di reclutamento: ai veterani Norman Reedus (invero un po’ monocorde in termini puramente espressivi) e ad un Troy Baker in stato di grazia come non mai, non stupisce neppure poi tanto vedere affiancati i nomi di Elle Fanning o di quella longeva leggenda che risponde al nome di George Miller.

E poi c’è un altro elemento che non avrebbe potuto mancare di lasciare il segno anche in Death Stranding 2: On the Beach, ovvero l’accompagnamento sonoro. Ancora una volta le nostre orecchie avranno di che deliziarsi, grazie all’eccellente lavoro svolto da compositore transalpino Woodkid, a cui Kojima ha affiancato una soundtrack forse meno potente della precedente, ma che difficilmente passerà inosservata. Al solito, inoltre, Sony ci ha regalato un doppiaggio in lingua nostrana assolutamente perfetto, che non potrà che fare piacere a chi vuole godersi ogni sfumatura anche in assenza di una conoscenza perfetta della lingua inglese.
Per due punti passa una ed una sola retta, ma infiniti sono anche i punti che la compongono. Questa è un po’ la stessa natura ludica di Death Stranding 2: On the Beach, che dietro ad un concept tanto semplice nasconde una molteplice quantità di sfaccettature differenti. La nuova creatura di Hideo Kojima è un survival gestionale, un’avventura narrativa, un TPS, un picchiaduro, un musical, ma anche puro cinema. Dopo 400 kilometri trascorsi a riconnettere in lungo ed in largo questa Australia sull’orlo del collasso, viene davvero difficile non trovare nel lavoro del designer nipponico un titolo sontuoso per qualità media generale che, pur peccando in parte sul fronte della sceneggiatura, ci offre una versione riveduta e corretta delle meccaniche assaporate nel 2019. Le carte in tavola sono sempre le stesse, quindi se non vi siete lasciati conquistare da Sam in passato, difficilmente potrà farlo Death Stranding 2: On the Beach, visto come non miri assolutamente a squassarne le fondamenta essenziali. Quello che resta, comunque la si pensi, è una produzione dai valori altissimi, realizzata con una cura esemplare e che dimostra come le grandi produzioni dai budget sconfinati possano ancora stupire, a patto di avere alle spalle una visione creativa ben definita. E poi è davvero difficile resistere quando si sentono le note di To The Wilder, mentre scorrono malinconici i titoli di coda: si può solo desiderare di tornare al più presto a vivere lungo quelle strade polverose.