Recensioni

Recensione Alone in the Dark

di: Simone Cantini

Sono sicuro che a molti di voi leggere il nome di Frédérick Raynal non farà né caldo né freddo, ma se ancora oggi state giocando a produzioni come Resident Evil, Silent Hill e simili, sappiate che lo dovete prevalentemente al design francese. Fu il suo estro a condurci per la prima volta tra le mura di Villa Derceto, nell’oramai remoto 1992, occasione che diede il via alla nascita dei survival horror. Con il ricordo ancora vivido dei ruvidi poligoni del tempo, mi sono quindi avvicinato al nuovo Alone in the Dark con tutti i timori ed i dubbi del caso, memore dei non certo felicissimi tentativi che, nel corso degli anni, hanno cercato di riportare ai fasti di un tempo la saga nata sotto l’ala protettrice di Infogrames, ovvero il germe di quella Ubisoft che pare una lontanissima parente della casa dell’armadillo.

Gemelli diversi

Fedele alla sua volontà di ripercorre nel modo più aderente possibile i passi tracciati Raynal, il nuovo Alone in the Dark si apre nel medesimo modo dell’originale: siamo nella Louisiana degli anni ’20 del secolo scorso, e la giovane Emily Hartwood si appresta a visitare la residenza di Derceto, in compagnia del detective privato Edward Carnby. I motivi sono da ritrovare in una lettera scritta da Jeremy, lo zio della ragazza, tracciata con toni quasi deliranti in cui traspare la presenza di strani avvenimenti in quella che, nel titolo firmato Pieces Interactive, è un ricovero per artisti in cerca di cure. Arrivati sul luogo, il player si troverà costretto a scegliere quale dei due protagonisti utilizzare nel corso dell’avventura, che ci catapulterà all’interno di un lucido sogno in cui le suggestioni lovecraftiane si sprecano (come nel 1992), in un non sempre fluido caleidoscopio di situazioni allucinatorie. La ricerca di Jeremy, difatti, metterà i due improvvisati eroi dinanzi ad un cast di personaggi ambigui e misteriosi, che sembrano saperne molto più del dovuto in merito ai deliri dell’uomo scomparso, custode di un segreto oscuro che troverà la sua deflagrazione nello scoppiettante finale.

A fungere da cornice portante sarà ancora una volta Villa Derceto, antesignana delle magioni horror più conosciute, che con i suoi corridoi e le sue porte ansiose di trovare la chiave adatta, fungerà da ideale hub tra realtà ed incubo. Efficace e capace di mantenere desta l’attenzione del giocatore, la sceneggiatura di Alone in the Dark ad opera del veterano del genere Mikael Hedberg (SOMA e la serie di Amnesia), non lesina qualche passaggio un po’ troppo criptico, ma riesce sempre a mantenere vitale una buonissima dose di suspance, grazie ad un’atmosfera davvero azzeccata. Peccato solo che la sbandierata rigiocabilità, legata alla presenza di due differenti personaggi, si traduca in un binomio di campagne pressoché identiche, con giusto una manciata di cutscene ed una piccola porzione in chiusura a giustificare l’escamotage. Sviscerare tutto, compreso il true ending che richiede almeno una seconda run, potrebbe portare comunque via non meno di una 15 di ore, una longevità comunque di tutto rispetto per una simile produzione.

Il fascino dell’esplorazione

Come confermato all’interno dei diari di produzione disponibili in-game, a patto di aver acquistato l’edizione deluxe del gioco, Alone in the Dark vuole in tutto e per tutto tentare di avvicinarsi il più possibile al suo illustre progenitore. E per farlo ha scelto di basare in modo massiccio il suo gameplay sull’esplorazione e sugli enigmi, spesso non così lineari come il recente passato ci ha abituato ad affrontare. L’incedere sarà sempre molto compassato, lasciandoci tutto il tempo di assaporare l’atmosfera ed immergersi nella perfetta caratterizzazione di Derceto, che ci aprirà poco alla volta i suoi segreti man mano che andremo avanti nella campagna. A tenere le fila del racconto ci penseranno i puzzle con cui gli sviluppatori si sono divertiti ad impreziosire l’esperienza, e che in gran parte dei casi ci richiederanno di esaminare nel dettaglio i numerosi documenti che potremo rinvenire nel gioco. La cui difficoltà, tra le altre cose, potrà essere modificata a piacimento tramite un settaggio in grado di eliminare o inserire i suggerimenti in-game, feature interessante per chi cerca un’esperienza vecchio stile a 360°.

L’azione, comunque, non si svilupperà unicamente all’interno delle sinistre mura della casa di cura, ma grazie alle nuove tecnologie a disposizione, si andrà ad espandere oltre i confini del razionale, per mezzo di un numero di livelli ambientati all’interno del subconscio di Jeremy, caratterizzati da un tono più action, oltre che da interessanti trovate di regia. È in questi momenti che emergono gli scricchiolii più evidenti di Alone in the Dark, che sono da ritrovare nei forzati passaggi action, che ci metteranno contro ad alcune demoniache creature. Se è vero che le fasi shooter (saranno presenti 3 armi differenti) se la cavano tutto sommato senza troppi problemi, a lasciare assai più tiepidi sono i momenti stealth, davvero abbozzati e privi di mordente, per lo più a causa di un level design sin troppo elementare, a cui si accompagna una IA nemica davvero risibile. Emblematica, inoltre, è la volontà di chiudere l’avventura con una boss battle sin troppo caotica, che mette in luce i limiti di una telecamera ed un gameplay non certo pensate per reggere i ritmi di una situazione assai caotica e sovraffollata. Un vero peccato chiudere così una progressione comunque ben strutturata…

Di necessità virtù

Che non si sia certo al cospetto di una produzione dal budget stratosferico si era capito sin dai primi trailer di gioco diffusi, con i dubbi confermati al lancio del prologo giocabile. Al netto di ciò, comunque, sarebbe ingiusto condannare la produzione firmata Pieces Interactive, che pur senza fare sfracelli si è dimostrata in grado di presentare al giocatore un colpo d’occhio assai convincente in più di un’occasione. A location e geometrie decisamente più anonime, difatti, si alternano ambienti e situazioni assai più intriganti (l’arrivo alla biblioteca del Taroella ne è un fulgido esempio), capaci di colpire nel segno grazie ad una direzione artistica coerente ed azzeccata. Tra alti e bassi, invece, si muove la recitazione digitale, che ha nei due protagonisti, impersonati rispettivamente da David Harbour e Jodie Comer, le due punte di diamante.

 

Il resto del cast evidenzia un fisiologico calo qualitativo, ma si attesta comunque su livelli discreti, grazie anche ad un voice over in lingua originale di buonissima fattura. Il fronte sonoro è un altro punto a favore del titolo, grazie ad un’effettistica assai convincente, capace di dare vita a suggestioni audio sempre efficaci, senza mai però abusare di beceri episodi di jumpscare. Peccato per la presenza di qualche glitch legato alla comparsa di piccoli frammenti sonori in momenti non previsti, ma che presumo vengano fixati in prossimità del lancio. Convince anche il frame rate, grazie anche agli oramai canonici due preset disponibili, in gradi di prediligere qualità o prestazioni. Personalmente, vista la tipologia di gioco, non posso che consigliare il primo dei due. Colpisce nel segno anche la localizzazione in italiano dei testi, sebbene abbia notato qualche refuso relativo alla versione PC, stranamente presente nel codice PS5 testato.

No, Alone in the Dark non riesce a bissare il successo del primo capitolo del franchise (e figli più prossimi), ma si è dimostrato comunque assai più convincente degli esperimenti più recenti legati a questo storico brand. Desideroso di aderire il più possibile al mood originale, il titolo firmato Pieces Interactive può sicuramente vantare un’ottima atmosfera, a cui si accompagna la parte più riflessiva, esplorativa ed old school del suo gameplay. A rovinare in parte l’allucinatorio quadretto, ci pensa pertanto una componente action non sempre a fuoco che, seppur non certo disastrosa, esce sconfitta da questo scontro interno. Rivedibile anche la gestione delle due campagne, purtroppo davvero sin troppo identiche tra loro per essere pienamente convincenti. Per quanto non certo in grado di rivoluzionare il genere, il ritorno a Derceto è un’esperienza consigliata a chi cerca un survival horror di stampo più classico e meno frenetico di quanto il mercato ha imparato a proporci con il passare del tempo.