Recensione Agony
di: Simone CantiniCi sono giochi speciali, capaci di scavare dentro di noi fino a raggiungere il cuore pulsante dell’anima, dove si installano saldamente e rimangono per sempre. Giochi capaci di andare oltre il loro essere un ammasso insensato di bit e byte, righe di codice ai più incomprensibili, poligoni e texture fuse in un ammasso pulsante di creatività ludico/emotiva. Giochi che sposano pienamente la loro semplice definizione, ma anche capaci di andare oltre e ridefinire il significato di queste poche lettere. Ecco, poi ci sono giochi come Agony, che in un battito di ciglia spazzano via quanto scritto fino ad ora e ci portano a formulare una semplice, quanto spiazzante domanda: perché?
https://youtu.be/8PWnccgh90k
Nomen omen
E dire che la nostra scorribanda tra le putrescenti lande infernali era cominciata nel migliore dei modi, con il nostro alter ego scaraventato nel regno di Satana dopo un folle volo, che ha avuto come allegra conseguenza la riduzione della sua carne in ustionati brandelli penzolanti. È stato a questo punto che si è palesata lei, la Dea Rossa, maligna donna in grado di rappresentare contemporaneamente tanto la nostra unica speranza di salvezza, quanto l’ossessione più letale. Ed è incamminandoci per le oscure lande del dolore, nello spasmodico tentavo di raggiungerla, che ha inizio l’avventura di Agony, il cui nome (ahinoi) non è altro che un sibilino presagio di quanto ci aspetti una volta impugnato il pad. La produzione Madmind Studio, difatti, già dalle prime battute non lesina di sciorinare all’incauto player una ragguardevole quantità di problematiche, che spaziano dal tecnico al ludico, evidente retaggio del complicato sviluppo patito dal titolo. Già solo il semplice orientarsi, capire dove andare e perché, sono elementi appena abbozzati, a cui non giova quasi mai la possibilità di poter richiamare una sorta di fascio luminoso in grado di indicarci la retta via (che spesso segnala in maniera incomprensibile). Gli ambienti stessi, inoltre, fanno di tutto per ostacolare la loro leggibilità, a causa di una gestione scellerata delle zone buie, capaci di rendere assolutamente incomprensibile la conformazione dei livelli. E a nulla servono le torce che è possibile recuperare, visto l’abbozzatissimo sistema di illuminazione del tutto incapace di sfruttare a dovere la nostra fonte di luce. E no, il bieco trucchetto di alterare la gamma non servirà assolutamente a nulla, anzi potrebbe finire per peggiorare la visibilità anche nelle zone non immerse nella penombra.
Perversioni diaboliche
Purtroppo, però, degne della dannazione eterna sono anche le meccaniche stealth che sono alla base di Agony, sia per una loro balorda implementazione, sia per alcune sadiche scelte di design. Superata la prima area, difatti, inizieremo a girovagare per zone pattugliate da demoni assetati della nostra anima (che diamine, siamo pur sempre all’inferno!), che dovremo attentamente evitare se non vorremo fare una brutta fine. Dalla nostra parte avremo la possibilità di nasconderci in appositi ripari, oppure trattenere il respiro nella speranza che non ci scorgano, a patto però di non avere in mano una torcia che, altrimenti, rivelerebbe immediatamente la nostra posizione. Se è vero che i nascondigli bene o male funzionano, rimanere scoperti, per quanto immobili e al buio, nella stragrande maggioranza dei casi si tradurrà nella nostra morte. Il che potrebbe anche non essere necessariamente un male, visto l’interessante modo in cui Agony gestisce questa eventualità: in pratica, una volta squartati, potremo guidare la nostra anima alla ricerca di un nuovo dannato da possedere, al quale però dovremo avere in anticipo tolto il cappuccio che indossa. Insomma, per aumentare le nostre chances di salvezza occorrerà esplorare un minimo i vari livelli, aumentando però le possibilità di venire barbaramente oneshottati, spesso senza poter far niente per evitarlo, a causa dei citati problemi di illuminazione. Le magagne, comunque, non finiscono qua, visto che una volta (ri)passati a peggior vita per tre volte, perderemo il checkpoint sbloccato e saremo costretti a ripartire da quello immediatamente precedente. Questo se manterremo i settaggi standard di gameplay, che vi invito quindi a modificare prontamente se non vorrete ritrovarvi davvero all’inferno in seguito alle vostre imprecazioni (Dark Souls scansati proprio!). I nemici, oltre ad essere estremamente letali, saranno gestiti da routine comportamentali completamente sballate, che in più di un’occasione non li porteranno ad allontanarsi dal luogo che dovremo per forza attraversare, costringendoci a sviare la loro attenzione facendoci trucidare solo per attirarli lontano. Certo, ci sarebbero anche delle skill da sbloccare recuperando alcuni frutti proibiti, ma la loro utilità è veramente marginale. Condite il tutto con un sacco di glitch che in più di un’occasione vedranno il nostro avatar incastrarsi senza speranza in elementi dell’ambiente, qualche crash random ed una progressione completamente sballata, ed ecco che il quadretto dipinto da Agony assume per davvero dei contorni quanto mai infernali. Un insieme che finisce per affossare anche le due modalità accessorie allo story mode, uno dei quali ci vedrà riaffrontare i livelli nei panni di una letale Succube (con sblocco di percorsi ed abilità alternative), mentre l’altro ci vedrà impegnati nel fuggire da stage generati in maniera procedurale.
L’inferno non può essere così brutto
Può essere davvero interamente drammatica la condizione di Agony? Beh, a voler essere sinceri almeno sul versante puramente artistico la produzione Madmind Studio ha tutte le carte in regola per centrare l’obiettivo: l’inferno tratteggiato dal team, difatti, è un luogo contorto e disturbante come non si era mai visto, e pur a dispetto dei tagli e degli ammorbidimenti effettuati per non incappare nella censura, non mancheranno scene decisamente truculente e cupe ma che, viste le tematiche, viene davvero difficile definire come fini a loro stesse. Prendete l’iconografia di Hieronymus Bosch, fondetela con le perversioni visive di Clive Baker ed ecco che avrete una vaga idea di quello che vi aspetterà una volta varcata la soglia del mondo di Agony. Tutte queste buone idee creative avrebbero, però, avuto bisogno di una realizzazione effettiva di ben altra caratura, viste le marcate imperfezioni che affliggono la resa visiva del titolo: si parte con un frame rate quanto mai ballerino, unito ad un massiccio tearing, passando per texture slavate e modelli dei personaggi malamente realizzati ed animati, chiudendo il tutto con una compressione dei filmati di intermezzo semplicemente indecente per una produzione del 2018. Ciliegina sulla torta un comparto audio disastroso, con frasi che si interrompono a metà per poi ripartire da capo, oppure che si attivano senza una ragione. E pure questo è un peccato, perché la resa sonora dell’inferno sarebbe davvero eccezionale senza queste magagne che intervengono a smontarne il potenziale.
Fedele al proprio nome, Agony riesce davvero nel tentativo di farci anche solo sfiorare l’essenza più cruda e brutale dell’inferno, anche se i meriti di questa aderenza ai temi trattati sono unicamente da imputare ad una realizzazione complessiva quanto mai disastrosa, piuttosto che ad una divertente e riuscita trasposizione ludica della dannazione eterna. Tutto pare realizzato solo allo scopo di frustrare il giocatore, sia sul versante del gameplay che su quello puramente tecnico, al punto che viene davvero da chiedersi se il team sia composto da sadici figuri al soldo di Satana, pronti a sfruttare per i loro biechi fini le imprecazioni che ci ritroveremo a vomitare sullo schermo non appena avremo l’ardire di avviare Agony.