The Gaming Apocalypse: la decenza che muore, la mondezza che avanza
di: Donato MarchisielloCon una ipotetica terza guerra mondiale alle porte (l’ultima, secondo un certo Einstein, combattuta con armi tecnologicamente avanzate), parlare di videogame è un lusso, superfluo e a tratti stupidamente cieco. Ma si sa, il superfluo ha anche un ruolo cruciale nelle vesti (sdrucite e pacchiane) di distrazione dall’amarezza della vita: serve a non pensare (sport in cui, ormai, siamo tutti divenuti autentici campioni). Ecco dunque che, al nostro baretto virtuale, ci si ritrova a parlare del più e del meno, guardando sempre al nostro passatempo preferito. Or dunque, parliamo di videogame: più specificatamente, dell’apocalisse assoluta che il settore sta vivendo, nell’indifferenza proprio di chi si professa “amante” (ma mette le corna appena possibile, eh) del segmento.
Per quanto non si possa esser completamente certi e sicuri storicamente, chi ama il settore videoludico sta vivendo, forse in modo “incosciente”, una enorme transizione. Transizione che, al contempo, è caratterizzata da tutta una serie di piccoli/grandi tracolli, una crisi concettuale/umana senza precedenti, una “rivoluzione silente” che, come già ripetuto, ha un forte retrogusto da “fine del mondo”. Il settore dei videogames sta cambiando (o forse è già cambiato): e la succitata apocalisse vedrà, con molta probabilità, la nobiltà morire (il gaming “ordinario”) e la spazzatura (il segmento mobile) banchettare sul suo cadavere ancora caldo.
Cadaveri fumanti che sognano
Non c’è poi molto da immaginare, la situazione sarebbe chiara anche ad un embrione: Concord, un fallimento epocale, poi Star Wars Outlaws, causa addirittura di un calo netto delle azioni di Ubisoft. Oppure, un capolavoro assoluto come Alan Wake 2 che dopo circa un anno non riesce ancora a guadagnare. Non sono più giochi, opere d’arte digitali, ma investimenti (ed ormai, anche i nostri occhi li guardano così). E allo stesso tempo, la lista dei prodotti pessimi figli di produzioni mediocri sarebbe lunghissima e tesa all’infinito. Tutti segnali inequivocabili dello stato del mercato, oberato da ritmi produttivi insostenibili, opinioni alla mercé di shitstormer professionisti e anonimi (spesso, “collaboratori” di aziende avverse), quality control basato più sul marketing che sull’amore per il proprio lavoro, innovazione che rasenta lo zero per paura di perder soldi. Ma se anche investimenti all’apparenza solidi falliscono? E’ un enorme, gigantesco cane che cerca di mordersi la coda, chiuso in una gabbia buia e striminzita che, al contempo, non permette movimento alcuno.
E qual è la reazione dell’industria? Sognare gabbie più buie e strette, code più spelacchiate, digrignando denti che non sono più affilati. Per paura di prendersi in piena faccia tempeste marrò spesso vergognose ed ingiustificate (perché si, insultare il lavoro altrui è una forma di antistress che allevia le fatiche di una vita anonima. Che, incredibilmente, resta tale anche dopo). Ecco che, quindi, la sensazione di dejavù, di repetita a iosa, di buche da scavare e pietre da spaccare quotidianamente [semi-cit.] è divenuta una sorta di croce messianica: il simbolo del nostro “culto” che va a farsi benedire. Ma, naturalmente, vivendo in una società ultra-capitalista dove ogni cosa ha un suo “prezzo consigliato” (Pier Peter docet), nonostante l’evidente e continuo fallimento degli investimenti videoludici (non sono più giochi, è meglio che lo realizziate), si continua imperterriti nella ricerca spasmodica delle succitate gabbie. E qual è il futuro? Ma è presente di già, signore e signori: la morte del gaming dignitoso, l’avvento della spazzatura videoludica.
Adoratori della mondezza
Il mobile traslato forzatamente sulle piattaforme principali, alla lunga, sarà l’unica soluzione per sopravvivere (e l’invasione, in vari modi, è di già iniziata da tempo, specialmente sul gaming PC). Ed è sin troppo facile immaginare un futuro vicinissimo, dove PC e console saranno roba da nostalgici, in favore di strumenti portabili di varia natura e specie, onnipresenti sulle nostre persone (e la realtà aumentata è ad un passo dall’essere la nuova “rivoluzione” tecnologica). Ma perché questo forzoso stravolgimento? Per tante ragioni: finanziarie, sociali, “umane”. Innanzitutto perché, in una industria affamata di soldi e afflitta da una crisi artistica e di idee senza precedenti, che va a braccetto con una certa stanchezza “portafogliesca” di una certa utenza (quella hardcore, che compra “sul serio”), spendere meno per consegnare qualcosa che rassomigli, anche solo alla lontana, ad un videogioco, è una buona forma di galleggiamento. Innanzitutto, scioriniamo un po’ di dati: nel 2023, il mobile ha occupato quasi il 50% dei ricavi totali dell’industria, in una crescita continua di anno in anno che, seppur sia numericamente rallentata, continua a segnare “più”.
Ricavi mobile che crescono, per tante ragioni. Principalmente, com’è lecito attendersi, di natura economica: produrre un gioco mobile, oggi, è uno “scherzo” rispetto ad una produzione “maggiore”. Ed è cosa risaputa tra i professionisti: tendenzialmente, le produzioni maggiori su mobile arrivano a costare, nei casi più “spendacciosi”, al massimo un paio di milioni di dollari. Una cifra che, rapportata al gaming “ordinario”, servirebbe a finanziare un titolo poco più che indipendente. Se lo sviluppo di un titolo mobile, in media, costa qualche decina di migliaia di dollari, sulle piattaforme da gioco canoniche il costo, facilmente, arriva a quintuplicarsi o più. Costano meno e, in rapporto percentuale, guadagnano molto di più ma… come fanno? E’ presto detto.
In generale, i ritmi delle nostre (tendenzialmente poco sensante) esistenze, sono aumentati in modo estremo. Un vortice incredibile che ci costringe spesso ad un continuo ed irreversibile multi-tasking (che, secondo studi recenti, devasta il nostro cervello) e ad efficientare (uno dei termini peggiori mai creati dall’umana stirpe) il nostro stile di vita. In quest’ottica, il vantaggio dei giochi mobile ovviamente non è solo la portabilità della piattaforma, che ormai abbiamo sempre con noi manco fosse una pozione per recuperare punti ferita, e la cui perdita innesca, addirittura, forme avanzate di depressione. Le ragioni del successo, vanno ricercate anche nell’essenza del mobile gaming stesso, il quale potrebbe esser degnamente rappresentato da una sorta di casinò costruito nel Far West.
Le mie fiches, la mia pistola: cosa mi manca? Tutto il resto
Da esploratore mesto, molesto e modesto del medium elettroludico a tutto tondo, ho sondato piuttosto a fondo il gaming su telefono. E mi sento di spararla grossa: il 95% dei prodotti videoludici presenti sugli store mobile sono tendenzialmente mediocri, nella migliore delle ipotesi “poco ispirati” nelle meccaniche e nei contenuti, religiosamente legati a pubblicità invadenti ed aggressive, affamati di dati e batterie. Non sono, a tutti gli effetti giochi, ma nella stragrande maggioranza dei casi sistemi più o meno complessi d’azzardo, studiati appositamente per esser confusi per videogiochi nel mentre ti sgonfiano il portafoglio. La loro intera essenza è basata sulle stesse regole che dominano il gioco d’azzardo: sistemi di gioco tendenzialmente rudimentali, spesso dominati da estensivi strumenti di autoplay (si, c’è chi pensa che giocare significhi guardare lo schermo del proprio telefono senza muovere un singolo muscolo) governati da continui “muri” che possono, nella migliore delle ipotesi, esser superati dopo centinaia di ore.
Ore spese, spesso e volentieri, a “tirare la leva” di slot machine virtuali sregolamentate, dalle trappole insidiose e nascoste e dalle risicatissime possibilità di vittoria (che non lo è mai, sia chiaro. C’è sempre un livello successivo di “potenza”). Oppure, naturalmente, spendere quantitativi abnormi di denaro, per pacchetti che arrivano a costare molto di più di un gioco nuovo per le piattaforme ordinarie, al day one. Più facile, più veloce, più immediatamente gratificante. Dunque, un attività “piena” e “dominante” come quella del gaming, diviene su mobile un’attività secondaria che può accompagnare ed esser messa come sfondo alle attività principali. Dove si “vince” davvero facilmente, senza grossi sforzi: molti giochi sono estremamente stupidi o al limite dell’ingiocabilità per le meccaniche inestricabili di auto-gioco. Una macchina mercificata di dopaminica e limitata gratificazione che, quasi sempre, passa attraverso le nostre carte di credito.
Una differenza sostanziale col gaming classico, per l’odierna umanità sempre più ristretto e inutilmente complesso, governato da meccaniche nettamente più complicate e che, incredibile!, ti richiedono attenzione ed impegno (due termini, la cui mancanza, ha di già iniziato a devastare le nuove generazioni). Dietro questa mondezza, però, si nascondono aziende ombrose spesso provenienti da mercati sregolati (come quelli orientali), abituati a confondere la parola “utente” con “schiavo”, che vengono coccolate (perché una fonte infinita di denaro) dai grandi proprietari degli store mobile, spesso “casualmente ” ciechi a 360° su ogni cosa che essi propinano.
MALEDETTI!
Da appassionati, dovremmo esser spaventati dall’immediato futuro.E lasciatemi esser ancora più schietto e brutale: il segmento mobile è un’autentica cloaca dove, paradossalmente, il punto più basso umanamente e moralmente, viene raggiunto dal comparto pubblicitario (in questo articolo, ho proposto qualche esempio fra quelli visti negli ultimi giorni n.d.r). Un misto tra l’inferno, il Far West ed il totale disgusto (qui, anche una piccola classifica “storica” dell’orrore). E davvero, ce n’è di tutti i tipi: scene pseudo-porno, animali torturati e uccisi in gabbia davanti ai loro cuccioli piangenti, gigantesse che vomitano su ominidi che, una scena dopo, entrano nel loro corpo da accessi “simil-genitali”. O peggio ancora, violenze di vario tipo rese “piacevoli” e “scherzose” o annunci che sfruttano malattie mentali o falsi medici per sponsorizzare la bontà del proprio prodotto. Senza contare alcuni standard, fortunatamente concretamente inoffensivi, ma brutali nella loro essenza: ad esempio, è ormai una pratica assodata quella di sponsorizzare giochi mostrando spezzoni di simil gameplay totalmente distante (o assente, in alcuni casi) nel prodotto al centro della reclame. Il tutto, con una certa (e sospetta) elasticità dei grandi proprietari dei principali store online che, ad esser ottimisti, paiono un po’ troppo “distratti” sull’argomento.
Ma una fogna non è nulla senza ratti, liquami e scarti d’ogni genere e natura: e si, tolta la metafora volutamente fortissima ed irrispettosa, passatemene ancora un’altra, ovvero che non c’è droga senza qualcuno disposto a “farsi”. Ed è qui che rientra il giocatore mobile medio: indifferente, disinteressato, ignorante videoludicamente e pronto a gettar denaro senza remore. Perché, se compri stupefacenti, non sei senza colpe: nel 95% dei casi finanzi il malaffare (o pensi che il tuo amico spacciatore sia una sorta di benefattore?). Lo stesso che, ovviamente, finanzia un malaffare più grande e organizzato che reinveste i tuoi soldi per i propri interessi i quali, solitamente, significano guai per te. Un’altra metafora fortissima e volutamente fuori posto: se regali soldi al sistema succitato, fatto di ombre, disgusto e disinteresse, sei colpevole dell’apocalisse che si dipana all’orizzonte. L’ignoranza, in tutte le sue forme, crea mostri: i giocatori “full mobile”, tendenzialmente, hanno pochissime esperienze nell’ambito videoludico “serio” e, di conseguenza, investono soldi e tempo con meno selettiva coscienza, anche perché abituati a schemi di gioco ripetitivi e incentrati sul progresso a pagamento (perché, l’altra brutale verità, spesso poco più che bambini abbandonati a sé stessi con un telefono in mano).
Sono manchevoli storicamente e concettualmente, dunque inclini ad accettare qualsiasi porcheria venga loro somministrata, basta che non richieda impegno e che si possa spender per esser “forti”. E quali possibilità ci sono che questi esseri mitologici, ormai il vero traino economico dell’industria videoludica, investano soldi in prodotti “limitanti” (perché ti obbligano ad un focus univoco), meccanicamente complicati, basati sul “no pain, no gain”? Molto scarse. Da un lato, dunque, giocatori hardcore stanchi della scarsa innovazione e della morbidezza dei giochi moderni, dunque ragionevolmente delusi dallo stato attuale delle cose e dal portafoglio chiuso (per sempre?). Dall’altro, tendenzialmente, pseudo schiavi, ignoranti, disinteressati e pronti a rovesciare quintali di soldi in slot machine imbellettate per rassomigliare a videogame classici. Nel mezzo, la grande industria videoludica spaesata, sempre più a corto di idee e di soldi, sempre più vicina al baratro, sempre più spaventata e pronta a qualsiasi “verità” pur di sopravvivere (The Mist docet). Dall’altro lato, una costellazione di aziende “dubbie” in grado, con pochi soldi e poca spesa temporale, di sciorinare decine di titoli pessimi, copia incolla e fondati sul gioco d’azzardo con la connivenza dei grandi “padroni” degli store online, che intanto conticchiano sorridendo i soldi incassati, fregandosene della decenza e delle opere d’ingegno altrui.
È una questione di “formazione”: un giocatore tradizionale è abituato a certi standard, tra cui uno sviluppo narrativo solido, una certa varietà di contenuti e meccaniche, un duro lavoro di creazione dell’universo, una qualità estetica e computazionale al passo. Al contrario, i giocatori full mobile sono abituati, tendenzialmente, ad assistere e basta agli eventi meccanici del gioco, spesso limitandosi a premere ossessivamente due tastini all’infinito e solo per continuare ad accumulare le risorse necessarie per potenziarsi. A meno che non si voglia spendere soldi, sia chiaro. V’è proprio una differenza concettuale, meccanica: il mobile è, sempre più spesso, un meta-gioco, una sorta di show con dei minimi elementi interattivi, strutturato con in mente la classica formula “rischio-guadagno” che contraddistingue, da decadi, le più scontate strategie del gioco d’azzardo. I videogame tradizionali sono, al contrario, opere d’ingegno positive, arte nuda e cruda (almeno, nelle intenzioni), probabilmente il medium candidato a raccogliere, sulla carta, tutti i medium al suo interno, in un futuro non troppo lontano (una speranza, forse, vana).
Chi la spunterà? Sicuramente non noi, poveri stolti innamorati di Pac Man. Per noi, campeggia già da tempo la scritta “Game Over”.