Recensione Cuphead
di: Simone CantiniNon sto ad elencarvi i torbidi ricatti redazionali a cui ho dovuto sottostare per accaparrarmi l’onore (e l’onere) di recensire Cuphead, complice la morbosa curiosità che il titolo targato StudioMDHR era riuscito a stuzzicarmi sin dal suo primo annuncio. Questo giusto per mettere rapidamente a tacere le malelingue faziose che, ne sono sicuro, avranno avuto immediatamente da ridire non appena scorto il voto che figura in fondo a questo ammasso di caratteri digitali. Sì, perché io in Cuphead ci ho creduto davvero tanto, lasciando passare quasi con indifferenza mesi, ritardi e problemi vari, cercando di arrivare all’appuntamento con questo stilosissimo prodotto armato dell’entusiasmo più sincero. Peccato che, però, non fosse davvero tutto oro quello che luccicava sullo schermo.
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That’s all folks!
Ho sempre adorato l’animazione in ognuna delle sue molteplici incarnazioni, ma se c’è un periodo particolare (anime nipponici esclusi) a cui sono maggiormente affezionato, di sicuro è quello remoto delle Allegre Sinfonie di casa Disney e delle Looney Tunes Warner. Produzioni curatissime e per certi aspetti davvero rivoluzionare per l’epoca, il cui impatto è chiaramente riscontrabile in Cuphead. Ed è in questo mondo soltanto all’apparenza fiabesco, ma al cui interno si muovono personaggi dalla discutibile innocenza, che l’omonimo protagonista ed il fratello Mugman finiscono per cadere vittime di una truffa dai contorni letali: scesi a patti con il diavolo in persona, dopo aver ovviamente perso la proverbiale scommessa, i due dovranno tramutarsi in demoniaci agenti di riscossione, incaricati di recuperare le anime degli sfortunati clienti dell’affabile demonio. Un incipit drammaticamente scanzonato, erede fedele di quel mood squisitamente anni ’30 di cui sopra, che darà il via ad una serie di battaglie contro boss meravigliosamente tratteggiati, sorretti da meccaniche uniche e complesse, in grado di far riemergere dalle nebbie del passato le gloriose lotte degli arcade che furono. Spalmata lungo tre distinti mondi, più uno finale accessibile soltanto se supereremo ogni stage a livello normale (è presente anche una modalità facilitata), l’avventura dei due fratelli dalla testa di tazza si presenta quasi completamente fedele alla iniziale presentazione, con scetticismi annessi, fattaci qualche anno fa da MHDR Studio. Sì, perché i tanto decantati livelli run and gun svelati nel corso degli ultimi aggiornamenti, e ritenuti responsabili del rinvio del titolo, non sono altro che una infinitesimale goccia all’interno del sin troppo eterogeneo mare di Cuphead. Si tratta di sezioni assai brevi, caratterizzate da meccaniche semplici e da un design sin troppo essenziale, che di sicuro non riuscirà a scaldare il cuore degli amanti di Mario e compagnia. Sembra quasi che siano state inserite in maniera forzata in seguito alle iniziali perplessità del pubblico, oltre che per consentire di raccogliere le monete utili ad acquistare la manciata di power up disponibili nel negozio. Fossero state più articolate ed amalgamate in maniera migliore all’interno del contesto ludico, di sicuro avrebbero potuto rappresentare un ottimo espediente per la diversificazione del gameplay, ma oltre ad essere eccessivamente brevi sono anche pochissime, pertanto realmente marginali in quanto a consistenza. Lo stesso core gameplay non si presta a virtuosismi particolari, con il nostro protagonista che, oltre a saltare e sparare, potrà contare su di un particolare meccanismo di rimbalzo sfruttabile con gli oggetti rosa e su un set di power up e attacchi speciali legati al tipo di fuoco impostato. Non manca anche una piccola variazione sul tema, che però non vi anticipo per non rovinarvi la sorpresa.
Fedele alle intenzioni
Bisogna comunque riconoscere, al di là di queste criticità, come Cuphead non abbia mai negato il suo voler essere sostanzialmente una raccolta di stuzzicanti boss battle, ed in questo senso la produzione StudioMDHR non tradisce le aspettative: le varie sessioni sono difatti caratterizzate da una notevole dose di imprevedibilità, suddivise come sono tutte in diversi step, ciascuno regolato da routine comportamentali degli avversari da scoprire e comprendere di volta in volta. Si spinge forte sul pedale del trial and error (anche nelle parti puramente platform), ma in fondo si tratta di un escamotage caro alle produzioni passate che non mi sembra giusto mortificare. Il problema sta tutto nel capire se possa soddisfare l’utente il proporre uno schema di gioco così rigido e limitato, che tra l’altro se ben skillati è possibile domare in un lasso di tempo davvero contenuto. Ovvio, non mancano classifiche interne e la possibilità di giocare in cooperativa locale, ma al netto degli anni aspettati per avere Cuphead a portata di pad, mi chiedo se fosse lecito aspettarsi un po’ di più. Stilisticamente ineccepibile la scelta di non dotare i boss di una barra dell’energia ben visibile, ma bisogna riconoscere come a livello prettamente ludico il tutto porti ad annullare il senso di progressione, finendo con il far scaturire la sensazione di dover semplicemente resistere per un determinato periodo di tempo prima di portare il nemico alla sconfitta.
Non credo ai miei occhi
Ok, magari sarà ininfluente ai fini puramente ludici, però mi basta anche solo per un attimo far indugiare occhi ed orecchie sul comparto stilistico della produzione per cambiare sensibilmente idea. Inutile girarci attorno, grafica e sonoro di Cuphead rappresentano una delle vette qualitative più alte che si siano mai viste in ambito videoludico. La cura maniacale riversata negli scenari e nelle animazioni, interamente realizzate a mano proprio come una volta, non può che far scendere copiose lacrime di gioia. Lo stesso character design ricalca in maniera fedele ed efficace i tratti tipici del periodo a cui si ispira, così come la regia generale ed i piccoli accorgimenti tecnici utilizzati per donare al tutto un credibile ed accattivante sapore retrò. La colonna sonora è ugualmente realizzata in modo magistrale, ricca di ritmi jazz in perfetto stile anni ’30, e caratterizzata da fruscii ed imperfezioni che riportano alla mente la riproduzione per mezzo dei vecchi fonografi. Sorge, pertanto, il mefistofelico dubbio che il grosso degli sforzi del team siano stati profusi nella realizzazione di tutto questo ben di dio audiovisivo, sacrificando in parte la costruzione dell’infrastruttura puramente giocosa. Cuphead, per certi aspetti, mi ha ricordato lo sfortunato The Order: 1886, un titolo tanto bello ed accattivante da vedere, quanto assai limitato in quanto ad offerta complessiva.
Magari è solo colpa mia, che non sono stato in grado di capirlo, ma vedere “sprecata” la dirompente espressività di Cuphead all’interno di un gameplay così semplice e contenutisticamente limitato mi rende davvero triste. La compilation di boss battle è divertente e sorretta da pattern interessanti e tutti da scoprire, ma mi viene sin troppo spontaneo chiedermi se davvero possa tutto esaurirsi così. Ovvio che si tratti di una scelta stilistica ben definita, che purtroppo si può solo amare od odiare senza troppe vie di mezzo, ma non posso fare a meno di chiedermi cosa avrebbe potuto essere l’avventura delle nostre due tazze antropomorfe se declinata in salsa Rayman. Ok, forse sono io ad avere sbagliato gioco, ma il dubbio del potenziale enorme malamente sprecato è davvero difficile da scacciare.