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Recensione Yakuza: Like a Dragon

di: Simone Cantini

È stato davvero strano, lo confesso. Sì, perché dopo anni trascorsi per le strade di una Kamourocho inevitabilmente griffata Sony, ritrovarmi ad attraversare incroci già battuti, anche nella vita reale, stringendo in mano un pad Xbox mi ha causato un certo effetto. E sulle ali di una simile atmosfera si è sviluppata tutta la mia frequentazione con il bizzarro Kasuga Ichiban, il protagonista di Yakuza: Like a Dragon, che si è visto foriero di numerosi cambiamenti, che hanno esulato pesantemente dal mero hardware sul quale è stato chiamato a girare il gioco di cui è protagonista. Però diciamo che va bene così, visto che dopo tutto parliamo di un nuovo inizio per la saga firmata da Nagoshi-san e dal suo valoroso team, anche se dopo tutte le ore trascorse a macinare chilometri su chilometri in quel di Ijincho, viene spontaneo domandarsi se, forse, gli azzardi sono stati un po’ troppo eccessivi.

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Life is a game

Il re è morto (anche se non è proprio vero), evviva il re. Morto (ancora una volta in senso metaforico) un papa se ne fa un altro. E chi più ne ha, più ne metta. Salutato con più di una lacrimuccia il nostro roccioso Kazuma Kiryu, Yakuza: Like a Dragon si propone come un nuovo inizio per la serie SEGA, nonostante in Giappone abbia mantenuto la sua numerazione progressiva ufficiale, premurandosi di fare più o meno tabula rasa su quanto abbiamo imparato ad apprezzare nel corso degli anni. Protagonista di questa nuova avventura, difatti, è il curioso Kasuga Ichiban, un giovane membro del clan Arakawa che, all’alba del nuovo millennio, finirà per in carcere per un omicidio mai commesso, trascorrendo 18 anni dietro le sbarre. Una volta uscito, però, non troverà nessuno dei suoi vecchi amici ad attenderlo, men che meno il patriarca della famiglia, reputato quasi un padre adottivo e nei confronti del quale Kasuga nutre una vera e propria venerazione. La situazione precipita ulteriormente quando il nostro protagonista finirà per avere un incontro un po’ troppo ravvicinato con una pallottola, e si ritroverà mezzo morto e rattoppato all’interno di una zona abitata da barboni in quel di Ijincho, uno dei quartieri di Yokohama. Solo e sperduto in una città a lui estranea, Kasuga non si perderà d’animo ed inizierà la sua risalita dai bassifondi, nel tentativo di venire a capo di tutti i cambiamenti che il mondo a lui conosciuto hanno subito durante gli anni trascorsi al fresco. La storia, come tradizione per la serie SEGA, rivestirà un ruolo di primaria importanza nell’economia del titolo, pertanto non mi dilungherò oltre, lasciando a voi il piacere di scoprire cosa ci attende nel corso di oltre 40 ore di pura follia. Già, perché a dispetto di quanto giocato in compagnia di Kiryu, l’impianto narrativo di Yakuza: Like a Dragon ha subito un sensibile cambio di rotta, vuoi perché si deve prendere la briga di introdurre un nuovo cast (preparatevi ad un incipit lunghissimo di quasi 2 ore!), vuoi per precise scelte autoriali. Queste ultime hanno visto la progressiva fusione tra serietà e follia che da sempre caratterizzano il brand, ma che hanno sempre viaggiato in parallelo, suddivisi tra main quest e storie secondarie. Tutto, adesso, ha finito per contaminarsi, andando ad “inquinare” con elementi a tratti un po’ troppo sopra le righe anche la storyline principale, così da creare un contrasto a mio avviso eccessivamente forte tra quello che vediamo a schermo e ciò che il gioco ci vuole raccontare. Questa discrepanza è da imputare, in prima istanza, al carattere di Ichiban, una sorta di otaku cresciuto a pane e Dragon Quest, che proprio per questo suo amore sviscerato per il titolo Enix è portato a vedere la vita reale come se fosse un vero e proprio jrpg, in cui lui stesso ricopre il ruolo di eroe. Ecco che allora avvertirà la necessità di formare un vero e proprio party, intessendo amicizie con i vari personaggi, i quali incarneranno a loro volta le canoniche classi ruolistiche per mezzo dei lavori che si troveranno a svolgere, e che torneranno indispensabili durante i combatti, rigorosamente a turni. 

Lavorare uccide

Al di là di un cast rinnovato e di un tono sostanzialmente differente per quanto riguarda la narrazione, lo stacco più netto con il proprio passato operato da Yakuza: Like a Dragon è sicuramente relativo al gameplay. Come sicuramente saprete, sin dall’annuncio di questo nuovo capitolo, l’avventura di Ichiban ha salutato definitivamente la propria natura di brawler, abbracciando una struttura a turni tipica dei jrpg tanto amati dal nostro protagonista. La componente ludica sposata non riserverà assolutamente sorprese in tal senso, con l’azione che consentirà adesso un approccio più ragionato e meno frenetico agli scontri. Come vi avevo già anticipato nel corso dell’hands on avvenuto durante lo scorso TGS, durante gli scontri potremo scegliere se attaccare direttamente, mettersi in posizione di difesa, sfruttare oggetti ed abilità uniche di ciascun membro del party (che ospita fino a 4 membri), oppure sfruttare l’opzione Pestamici, ovvero delle vere e proprie summon che, investendo gli Yen in nostro possesso, ci permetterà di chiamare in soccorso i più improbabili degli alleati, tra cui aragoste e galline (e torna in modo prepotente l’assurdo di cui sopra). A rendere più dinamico il tutto ci penseranno anche dei simil QTE, durante i quali dovremo premere i comandi indicati per potenziare le nostre tecniche, oppure per cercare di ridurre i danni nemici. Una volta sconfitti gli avversari di turno, come da tradizione verremo ricompensati con denaro, oggetti e punti esperienza, che ci permetteranno di aumentare in maniera automatica le statistiche del party, ma anche di aumentare il livello del lavoro che stiamo svolgendo. Sì, perché durante il proprio percorso di crescita Ichiban ed i suoi amici si troveranno a svolgere gli impieghi più disparati, che altro non sono che le varie classi che è possibile impersonare, ognuna con le proprie caratteristiche peculiari. Insomma, un vero jrpg in tutto e per tutto, anche se le buone intenzioni del team hanno finito per dare vita ad un sistema non del tutto impeccabile. Il primo limite risiede proprio nel job system proposto che, salvo un paio di casi specifici, non ha mai dato l’impressione di essere un punto cardine dell’esperienza: variare professione, con relativo skill tree, sembra non avere alcuna influenza sul ritmo di gioco o la progressione, al punto che una volta trovata una classe che piace per estetica e peculiarità non si viene incentivati alla modifica, se non per mera curiosità. Gli stessi scontri, inoltre, sono per loro stessa natura molto più lenti, oltre che praticamente impossibili da evitare, se non dopo essere entrati in combattimento, situazione che spezza in modo a tratti invadente il semplice girellare per Ijincho. Tutto ha pertanto la parvenza di un corposo antipasto, con tante buone intenzioni ed idee intriganti, ma che evidenzia in modo palese come si tratti di un primo esperimento dopo anni di rodata routine. Si può comunque essere positivi, visto che la saga di Kiryu ha impiegato diversi capitoli, limando e cesellando il gameplay episodio dopo episodio, prima di raggiungere la piena maturità, pertanto ci possono stare alcune ingenuità in questo rinnovato combat system.

Una città da vivere

Fortunatamente non tutti i cambiamenti prestano il fianco a delle critiche, come dimostra la nuova area di gioco che andrà a costituire gran parte dello scenario dell’avventura, ovvero il quartiere di Ijincho. Grande circa il terzo della consueta Kamurocho, la porzione di mappa ambientata a Yokohama è ancor più ricca di digressioni ludiche e narrative che in passato, grazie ad un insieme di elementi collaterali in grado di fagocitare ore di gameplay senza che neppure riusciate ad accorgervene. Alla consueta dose massiccia di storie secondarie, adesso molto più complesse ed articolate che in passato, si accompagnano nuove attività da svolgere, ognuna impreziosita dalla propria dose di meccaniche inedite. Se sulle sale giochi e sul karaoke c’è poco da dire, una parola in più la meritano senza dubbio new entry, in grado di dare vita a veri e propri momenti di gioco nel gioco. Penso alla caccia ai Sujimon, con tanto di applicazione dedicata nel nostro cellulare virtuale, le corse del Dragon Kart, con gran premi e provi e tempo, ma anche il bizzarro minigioco del cinema, durante il quale dovremo resistere al potere soporifero di alcuni montoni che sembrano provenire dal mondo di Catherine. Manca, purtroppo, il minigioco dell’hostess club, oramai un must dai tempi di Yakuza 0, a cui si è però sostituita la gestione della Ichiban Confections, un vero e proprio manageriale che ci vedrà impegnati a mandare avanti un’azienda che produce senbei (i crackers di riso nipponici). Non manca, e come avrebbe potuto vista la passione del nostro eroe per Dragon Quest, anche una serie di dungeon opzionali, tramite i quali potremo incamerare punti esperienza (fondamentali in alcuni momenti in cui è richiesto più grinding del dovuto), oggetti e Sujimon rari. Insomma, c’è davvero di che sbizzarrirsi se solo si avrà la voglia di deviare dal percorso principale, e questo non è che la punta di un iceberg che non voglio svelare del tutto. Più tiepido, almeno su current gen, il giudizio relativo al comparto tecnico di Yakuza: Like a Dragon, che almeno su One S non ha lesinato un evidente pop up di ambienti, oltre che un frame rate non certo impeccabile in ogni frangente. A infastidire maggiormente però, soprattutto grazie ai progressi avvertiti con gli ultimi episodi, sono i caricamenti frequenti e sin troppo prolissi, che tornano a funestare anche l’ingresso in parte delle location: non vedo l’ora di testare tutto su Series X a questo punto. Tra luci ed ombre anche la colonna sonora, priva di brani davvero indimenticabili, ma a cui fa da contraltare il solito, sontuoso doppiaggio in lingua nipponica (è presente anche la traccia inglese), a cui finalmente è stato nuovamente accompagnata una localizzazione testuale in lingua italiana, anche se non sempre aderente all’originale e non priva di qualche sbavatura. Ma se pensiamo che l’unica volta che questo si è verificato è in occasione del debutto della saga su PS2 (2006), non possiamo fare altro che stappare una bottiglia di champagne.

Roma non fu costruita in un giorno e, seppur con le dovute proporzioni, lo stesso possiamo dire del nuovo corso della creatura di Toshihiro Nagoshi. Yakuza: Like a Dragon, difatti, sceglie consapevolmente di girare pagina, salutando personaggi e meccaniche che erano riusciti a costruire la propria identità nel corso di 3 lustri. Così facendo, però, si espone gioco forza ai rischi che un reboot totale del brand comporta, evidenziando come tutte le nuove, buone, idee messe sul piatto abbiano comunque bisogno di essere smussate con il tempo. Fisiologicamente prolissa nelle use battute iniziali, l’avventura di Kasuga Ichiban sceglie coraggiosamente di mutare i toni del proprio incedere, sacrificando sull’altare dei jrpg la frenesia delle sane scazzottate di strada. Il risultato, anche per scelte squisitamente narrative, è a tratti poco omogeneo e latore di un amalgama non sempre eccellente, visto il modo in cui contamina in maniera non sempre efficace follia e crudo realismo. Al netto di ciò, comunque, si deve apprezzare il coraggio del team capitanato da Nagoshi-san, che si è reso conto di come la struttura oramai abusata dei precedenti episodi avesse davvero dato il proprio massimo. Sicuramente un nuovo e promettente inizio per la serie, ma che proprio per questa sua giovinezza creativa non può fare a meno di venire messo a confronto con il proprio, glorioso, passato.