Recensione Yakuza 6: The Song of Life
di: Simone CantiniEcco, la musica è finita, gli amici se ne vanno, che inutile serata amore mio, ho aspettato tanto per vederti, ma non è servito a niente. Se c’è una canzone in grado di salutare degnamente il buon Kazuma Kiryu, questa è senza dubbio il classico della musica italiana firmato Umberto Bindi che apre la recensione. Difficile, difatti, sottolineare in maniera migliore quel retrogusto agrodolce che si porta appresso Yakuza 6: The Song of Life, capitolo conclusivo di una longeva e complessa saga che ha l’ingrato compito di farci salutare, tra lacrime e sorrisi, un mondo di cui abbiamo finito per essere, con il passare degli anni, una fondamentale parte integrante. Preparate i fazzoletti!
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Chiudere un cerchio
Ne sono successe di cose dall’ultima volta che ci siamo incontrati, vero Kiryu-san? Ti avevamo lascito nelle mani delle forze dell’ordine, pronto a scontare la tua giusta pena, solo per poi uscire di prigione da comune uomo libero, una volta rinnegato il tuo ruolo all’interno del clan Tojo. E che dire della giovane Haruka? Una volta smessi volontariamente i panni della idol di successo, ha visto bene di ritornare alla consueta, amata quotidianità dell’orfanotrofio Sunshine (o Morning Star a seconda della traduzione). Peccato che quando si è legati a doppio filo con il Drago di Dojima è difficile, se non impossibile, scegliere di essere una ragazza come tutte le altre. Ed è stato per proteggere i suoi affetti che Haruka ha deciso, non senza trattenere le lacrime, di scomparire letteralmente dalle scene e far perdere le proprie tracce, nella speranza di non causare problemi alle persona amate. Una scelta che Kiryu comprenderà nella maniera più brutale, non appena tornato a calcare per l’ennesima volta le strade della amata/odiata Kamuro-cho, ora teatro di una lotta per il predominio criminale tra il clan Tojo e la mafia cinese: è qua che l’amico Date lo informerà di un incidente stradale che ha visto Haruka sfortunata protagonisita. La giovane si ritrova adesso a lottare per la vita in ospedale, lasciando alle cure di Kiryu il piccolo Haruto, un bambino che pare essere suo figlio. Chi è il responsabile dell’incidente, e perché ha investito la ragazza? Cosa si cela dietro l’arresto dell’amico, nonché capo del clan Tojo, Daigo? E come mai Haruka è stata vista aggirarsi per Onomichi, una piccola cittadina della prefettura di Hirosima? Ma soprattutto, chi è il padre di Haruto? Ogni interrogativo troverà la sua risposta all’interno della storyline principale, al solito sorretta da una sceneggiatura impeccabile e arricchita da colpi di scena, situazioni esagerate e vecchie e nuove conoscenze, al solito sapientemente tratteggiate. In questo caso, però, Yakuza 6: The Song of Life sceglie coscientemente di compiere un marcato passo indietro rispetto alle sontuose divagazioni sociali viste negli ultimi due episodi della serie, scegliendo giustamente di concentrarsi sulla figura di Kiryu e abbandonando gli intrecci multipli. Il racconto va quindi ad assumere un tono più intimo e personale, sacrificando un respiro narrativo più ampio in favore di una storia umanamente più circoscritta, che per ambientazioni e dinamiche personali ricorda molto il terzo, sottovalutatissimo episodio della serie. Peccato che una simile scelta abbia finito per sacrificare sullo sfondo alcuni dei personaggi storici della saga, e qua il pensiero non può che andare subito all’iconico Majima, che finisce per salutarci in maniera più defilata di quanto il suo personaggio avrebbe meritato.
Cambio di ritmo
A non mutare, come era prevedibile, è invece la struttura ludica di Yakuza 6: The Song of Life, che sceglie consapevolmente di riproporre inalterati i suoi meccanismi storici, fondati su elementi tipici dei brawler d’antan, corposi momenti narrativi, oltra alla consueta mole di attività collaterali in grado di offrire ai giocatori più di una diversione alla main quest. Qualunque sia l’elemento preso in esame, comunque, sono evidenti le modifiche apportate in seguito all’adozione del Dragon Engine, il nuovo motore sviluppato dal team, che ha proprio in questo titolo il suo attuale banco di prova più sostanzioso. La rinnovata tecnologia ha permesso in primis di sgrossare ed affinare il ritmo con cui si passava dalla semplice esplorazione ai combattimenti, che adesso è possibile affrontare praticamente in tempo reale, senza attendere i consueti caricamenti (lo stesso, per fortuna, vale anche per l’ingresso nei vari shop). Su questi, inoltre, va ad impattare una rivisitata interazione con l’ambiente di gioco, adesso molto più ricco di elementi interattivi e gestito da una fisica visibilmente più sviluppata e credibile. Interessante, in aggiunta, la possibilità di spostare gli scontri all’interno dei vari edifici (adesso in parte liberamente accessibili), con un conseguente aumento dell’interattività generale. Peccato che questo benvenuto passo avanti abbia finito per essere accompagnato con una regressione del combat system, che adesso si vede ritornare quasi alle origini, in seguito all’abbandono degli apprezzati tre stili visti in passato. Ristretto anche il campo di potenziamenti sbloccabili, così come quello delle mosse speciali, in definitiva un vero e proprio ridimensionamento rispetto all’eccellenza vista in Yakuza 5 (ma anche nello Zero ed in Kiwami). Per fortuna a non essere toccato è il feeling delle lotte, invero sempre brutali e galvanizzanti, con le classiche finisher in grado di restituire tutta la pesantezza dei colpi sferrati da Kiryu. Mastodontico, al solito, il campionario dei minigame e delle attività collaterali presenti nelle due mappe di gioco (Onomichi e Kamuro-cho), che pur se private di alcuni esponenti storici come il bowling, hanno salutato l’arrivo di benvenute ed intriganti digressioni inedite. Basta pensare alla palestra presso cui allenarsi, una specie di baseball manager e, primo su tutti, il Clan Creator. Questo sarà un vero e proprio gioco nel gioco, in cui dovremo assemblare una gang tramite la quale sgominare le bande rivali, il tutto all’interno di una specie di RTS, fruibile sia in solitaria che online. Semplice all’apparenza, questa feature può contare su di un numero di opzioni ragguardevoli che, tra main quest, missioni aggiuntive ed eventi a tempo accessibili in rete, saprà portarvi via una bella fetta di tempo. Non mancano, ovviamente, le esperienze arcade presenti nelle sale giochi SEGA, che stavolta hanno visto l’arrivo di Puyo Puyo e Virtua Fighter 5, due vere perle in grado anche esse di sottrarre ore ed ore allo stesso Yakuza 6: The Song of Life. Presenti, anche se in numero un po’ ridotto rispetto al passato, le classiche missioni secondarie, a cui si accodano alcuni incarichi a tempo accessibili tramite lo smartphone che funge (evviva!) da rinnovato menu di gioco.
Sgargiante saluto
Insomma, è evidente come a livello puramente contenutistico questo capitolo conclusivo non sia del tutto in linea con la crescita fatta registrare dagli ultimi due episodi, ma se si va ad analizzare il lato puramente tecnico della produzione SEGA è anche semplice capirne senza sforzo i motivi. L’adozione del Dragon Engine, difatti, ha permesso al team di migliorare in maniera sensibile le prestazioni audiovisive della produzione, che adesso può finalmente vantare un impatto grafico decisamente più curato, grazie all’aumentata interazione ambientale, un ricco set di texture dall’ottima definizione ed un rinnovato sistema di illuminazione. Certo, permangono ancora alcuni problemi legati a qualche animazione, invero non proprio impeccabile, ma bisogna comunque rimarcare come si sia ridotto lo stacco tra il giocato e le varie (e sempre eccellenti) sequenze narrative, adesso tutte interamente accompagnate dal consueto, superlativo, doppiaggio in lingua giapponese. Si tratta di migliorie dal peso realizzativo assai gravoso, ma che riescono a rendere ancor più vivo e credibile il mondo di gioco, al punto che si chiude volentieri un occhio al cospetto della lieve riduzione di elementi puramente ludici. È comunque doveroso evidenziare come, almeno su PS4 standard, le prestazioni del Dragon Engine siano tutt’altro che impeccabili, a causa del consueto e vistoso tearing (unito a qualche sporadico rallentamento) che va ad affliggere la resa su schermo. I fan storici della saga ci avranno fatto oramai il callo, ma era lecito aspettarsi qualche sforzo in più. Ah, naturalmente non sognatevi neppure di leggere il tutto in italiano…
Ecco, la musica è finita, gli amici se ne vanno, e tu mi lasci solo più di prima, un minuto è lungo da morire, se non è vissuto insieme a te. E così, alla fine, siamo giunti al termine di questo lungo viaggio durato anni. Un viaggio che ci ha visto ridere, piangere e crescere in compagnia del rude Kiryu, in un modo tale che abbiamo finito per divenire noi stessi parte dello sfaccettato universo creato da Nagoshi-san. Difficile, a questo punto, tentare di dare un giudizio che possa allontanarsi quanto possibile dall’essere influenzato da simili sentimenti, ma è doveroso provarci lo stesso. È innegabile come Yakuza 6: The Song of Life rappresenti un degno commiato, forte di alcuni macroscopici passi avanti compiuti in termini di struttura e rifinitura, che hanno però comportato un piccolo sacrificio in termini di quantità. Sono questi sottili passi indietro strutturali ad impedire al titolo SEGA di svettare all’interno di questa eptalogia (spin-off esclusi), ma sarebbe comunque un delitto non tributare il doveroso saluto ad uno dei personaggi più iconici dell’immaginario videoludico nipponico. Sayonara Kiryu-san, o ai dekite kōeideshita!