Recensione Transference
di: Simone CantiniLe produzioni videoludiche fortemente incentrate sulla narrativa mi sono sempre piaciute, visto che ritengo il gaming uno degli strumenti più interessanti per veicolare una storia. Al pari del cinema, difatti, credo che il nostro hobby preferito abbia tutte le carte in regola per proporre sceneggiature intelligenti ed intriganti. Il problema, a mio avviso, sorge quando la durata di simili prodotti si avvicina in maniera un po’ troppo marcata a quella delle pellicole, come nel caso di Transference, opera prima dei ragazzi di SpectreVision, team dietro al quale si cela anche l’estro creativo del celebre Elijah Wood.
accettare i cookie con finalità di marketing.
Viaggio mentale
Il focus del plot di Transference ruota attorno ad un’apparecchiatura ideata dallo scienziato Raymond Hayes, ovvero una macchina in grado di riprodurre fedelmente all’interno di un’ambiente virtuale la coscienza di un individuo, in una maniera analoga a quella vista in Get Even. Tormentato da una relazione familiare oramai compromessa per colpa dei suoi studi, l’uomo si presenterà a noi per mezzo di quello che ha tutta l’aria di un testamento video, tramite il quale ci illustra le potenzialità della propria scoperta e ci invita ad immergersi nel mondo da lui ricostruito sulla base di alcuni ricordi. È a questo punto, ovviamente, che entriamo in scena noi, che avremo il compito di avventurarci in questa riproduzione mnemonica, cercando di rimettere assieme alcuni pezzi oramai compromessi, il tutto risolvendo alcuni interessanti enigmi, la cui risoluzione ci permetterà di accedere di volta in volta a nuove ricostruzioni. Il tutto è ambientato quasi interamente all’interno di casa Raymond, la cui planimetria cambierà costantemente, dando origine ad alcune situazioni paradossali che tanto ricordano alcuni momenti di quel kojiminano P.T. che tanto riuscì a stupire, per poi disilludere bruscamente le nostre aspettative, solo qualche anno fa. A giocare un ruolo fondamentale nelle vicende narrate in Transference, inoltre, sarà l’utilizzo che faremo degli interruttori della luce, la cui pressione ci porterà a switchare tra due dimensioni simili, ma profondamente differenti, oltre che connesse tra di loro: alcune azioni che compiremo in una delle due, difatti, avranno ripercussioni dirette sull’altra, pertanto non saranno rari i momenti in cui ci troveremo a viaggiare tra questi due mondi per far procedere la narrazione. Basata su immagini, suoni e frammenti mnemoci, questa si sviluppa in maniera decisamente interessante, sorretta anche da una sceneggiatura solo apparentemente caotica e confusionaria, ma ottimamente scritta. Così come è pregevolissima la prova dei tre attori chiamati a rivestire i ruoli dei membri della famiglia Hayes, capaci di trasmettere in modo assai convincente i tormenti che dilaniano l’animo dei personaggi che interpretano: tutto è ovviamente recitato in inglese, ma per fortuna non mancano dei puntuali sottotitoli in italiano capaci di aiutare i non anglofoni. Insomma, tutto funziona a meraviglia in Transference, sia sul versante ludico che su quello scenico e narrativo: ma allora perché il voto di questa recensione è così dannatamente basso? Ci arriviamo subito, non temete.
Tutto qua?
Preferisco non girarci troppo attorno, visto anche l’incipit molto chiaro della recensione: il problema maggiore di Transference è la sua esigua durata, davvero troppo ristretta se paragonata alla qualità complessiva e, soprattutto, all’esorbitante prezzo a cui viene proposto. Per quanto pregevoli ed ottimamente realizzati, i circa 90 minuti richiesti per arrivare ai titoli di coda sono un affronto una volta affiancati ai quasi 25 Euro richiesti per poter scaricare la produzione SpectreVision. La fine, purtroppo, giunge davvero troppo in fretta e finisce con il lasciarci in bocca uno sgradevole sapore che sa tanto di disappunto, visto che vorremmo aver voluto vivere ancora per un po’ all’interno di questi ricordi così tormentati. Se è possibile trovare una giustificazione nella già citata ottima sceneggiatura, il cui protrarsi ulteriormente ne avrebbe quasi sicuramente diminuito la qualità, bisogna comunque prendere atto del fatto che l’esborso richiesto, trattandosi di un videogioco e non di un film, è davvero sballato, e non bastano alcuni videodiari recuperabili in-game per modificare il giudizio. Sarebbe stato più logico, vista la natura della produzione, strutturarla in più episodi (anche tre sarebbero bastati), basati ognuno su di un plot unico, quasi come se fosse una piccola serie TV. Invece, purtroppo, quello che ci ritroviamo tra le mani allo stato attuale delle cose sembra quasi essere uno stuzzicante, ma dannatamente insoddisfacente, misero aperitivo. Cucinato e presentato in maniera eccellente, ma dalle dimensioni troppo scarse per saziare il nostro appetito. Sì, perché anche tecnicamente Transference è un piccolo gioielli, forte di una messa in scena convincente anche se giocato in modalità virtuale (il codice funziona anche in maniera tradizionale), situazione in cui la produzione riesce veramente a sprigionare tutta la sua potenza espressiva, senza però che a farne le spese sia l’estetica. Solo lodi, inoltre, possono essere spese per lo strepitoso comparto audio, che oltre al citato ottimo voice over presenta una serie di campionamenti ambientali eccellenti, a cui si accompagnano alcune apparentemente dimesse tracce musicali ottimamente inserite nel contesto. Peccato, al solito, per il doppiaggio in lingua nostrana assente, visto che mi sembra davvero improbabile che il nostro mercato sia davvero meno influente di quello coreano (una delle numerose lingue di cui è presente il parlato), ma va bene lo stesso.
Peccato, peccato davvero che Transference non sia riuscito a coniugare un’idea sviluppata in modo dannatamente efficace ad un rapporto durata/prezzo ugualmente convincente. Passi pure la qualità eccellente dell’esperienza, così come si può chiudere anche un occhio al cospetto dell’ora e mezza richiesta per completarlo, ma anche così facendo viene davvero difficile giustificare i 24,99 Euro richiesti per l’acquisto. L’idea, per quanto parta da premesse comunque già viste, è comunque intrigante e ben costruita, ma lascia con troppa voglia di averne di più, oltre che un poco artistico vuoto nel borsellino.