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Recensione Thimbleweed Park

di: Marco Licandro

2017. Il nostro anno si è aperto all’insegna del futuro. Grafiche eccezionali, console potenziate, altre console ancora più potenziate in arrivo, Realtà Virtuale, Realtà Aumentata. Siamo tutti che guardiamo al futuro.

Beh, magari non proprio tutti. A dimostrarlo è la campagna vincente di Kickstarter, con a capo Ron Gilbert (Maniac Mansion, Monkey Island), che con oltre 15,000 backers e $600,000 investiti, hanno permesso la realizzazione di un nuovo gioco che, invece, guarda indietro.

Thimbleweed Park è infatti un avventura punta e clicca così come quelli che molti di noi hanno imparato ad amare, ma con qualche piccola differenza. Vediamole insieme.

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Negli anni ’90 non si poteva resistere al fascino di una buona avventura grafica. Compagnie come Sierra e Lucasarts rappresentavano il top del settore, sfornando titoli del calibro di King’s Quest, Sam&Max, Day of Tentacles, e tantissimi altri titoli. Tutti seguendo lo stesso formato.

La trama, solitamente ricca di segreti e colpi di scena, si svolge sotto gli occhi del giocatore, il quale dovrà attivamente esplorare, parlare con le persone, porre domande, raccogliere oggetti, ed utilizzarli per poter proseguire.

La differenza sostanziale con le avventure moderne consisteva in un grande menu posizionato in basso, che copre all’incirca 1/4 dell’immagine. Questo include a destra una sezione per l’inventario, dove potremo rapidamente vedere tutti gli oggetti raccolti, pronti per essere combinati tra loro o utilizzati e a sinistra una peculiare griglia composta solo da verbi.

Questi verbi sono essenziali in quanto ogni azione nel mondo di gioco dovrà essere ponderata in base a ciò con cui vorremo interagire. Ad esempio, se volessimo azionare una leva posizionata su di un muro, dovremo anche pensare all’azione da svolgere su di essa, la quale sarà probabilmente quella di tirarla. Occorre quindi selezionare il verbo TIRA per poi dirigerci con il mouse sulla leva e sperare che il personaggio possa effettuare quell’azione.

Tra i vari verbi avremo esempi come Esamina, Parla, Spingi, Tira, Dai, Apri, Chiudi, e via discorrendo. Avremo anche un generico comando “Usa”; i veterani del settore sapranno quanto esso sia ambiguo e generico, e servirà soprattutto a confondere le idee.

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Ritorno al passato

Thimbleweed Park torna alle origini, e sfrutta questa tipologia di gioco, rigorosamente in pixel graphic, risultando estremamente immediato ed incredibilmente nostalgico, sia agli appassionati che a chiunque abbia giocato almeno un’avventura grafica nei ’90.

Vi ritroverete a vostro agio nei meandri del gioco, riscoprendo un tipo di humour assodato che pensavate fosse perso, pieno di assurdità, riferimenti reali e assolutamente non coincidenziali a fatti e persone, sfondamento completo del quarto muro e via dicendo. Vi sarà richiesto, nuovamente, di pensare fuori dagli schemi, di provare tutto ciò che abbia un cenno di logica, anche se normalmente non lo fareste mai. Dovrete parlare con chiunque, raccogliere indizi, e decisamente non fidarvi di tutto ciò che vi viene detto.

Ma significa questo che i nuovi giocatori si troveranno in difficoltà con tutti questi macchinosi comandi ed il ritorno ad un genere ormai abbandonato? Forse sì, ed è per questo che il titolo include due livelli di difficoltà. Uno è pensato per gli hardcore, i quali sono pronti a sbattere la testa al muro di fronte agli enigmi e bloccarsi per giorni (o minuti, in caso consultaste il nostro amico Google in preda alla rabbia), mentre l’altro è pensato per i casual gamers, I quali avranno sì dei puzzle complessi, ma sempre fattibili, mentre alcuni altri saranno totalmente rimossi dal gioco, concedendovi di proseguire per il gioco senza problemi.

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La trama in breve

Anno 1987. Strani eventi accadono in Thimbleweed park. In particolare i segnali. I segnali sono forti questa notte. Vi ritroverete così nei panni di un individuo che per qualche motivo decide di dar retta ad un biglietto trovato nella sua stanza d’hotel, il quale lo invita a presentarsi sotto ad un ponte ad un certo orario. Inutile dire che rimarrete secchi (a capirlo, il modo in cui galleggerete a faccia in giù sull’acqua, grazie anche ad una gradazione bluastra dei pixels).

Inizia così l’avventura. Un delitto, una misteriosa cittadina ormai in rovina, personaggi strani, personaggi ancora più strani.

Il giocatore sarà a capo di due agenti dell’FBI, Fox e Dana. No, scherzo. Ma vi assomigliano sul serio. Un apposito comando vi permetterà di passare dall’uno all’altro, in maniera tale da trovarvi in punti diversi di gioco contemporaneamente, qualità che si rivela utile nel momento in cui uno non ha informazioni delle quali ha invece accesso l’altro. La comunicazione tra i due in tal senso avviene tramite giocatore e non ha assolutamente senso in termini di logica e trama. Bentornati nei classici punta e clicca!

Ogni personaggio, per quanto strampalato sia, ha qualcosa da dire o qualcosa da raccontare. Nel secondo caso, viaggerete nel passato tramite dei flashback, che lentamente vi daranno una visione generale delle dinamiche della città. Scoprirete quindi fatti e vicende, sogni realizzati e sogni infranti e potrete dare una mano nella ricostruzione della città dando suggerimenti riguardanti nomi di negozi che vendono tubi di ricambio (Qualcuno ha detto YouTube?).

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Conclusione

Per questo titolo è stato effettuato un lavoro splendido, riportandovi con la mente a venti o trent’anni fa, quando questa tipologia di gioco era in auge. Nonostante tutto, Thimbleweed Park non è la copia dei punta e clicca dell’epoca, realizzato con la tecnologia SCUMM, bensì è stato disegnato in modo tale da rappresentare la visione del ricordo che abbiamo di essi. Si percepisce molto una struttura a livelli, la quale sfrutta il parallasse per dare profondità, anziché una vera struttura in pixels, che però avrebbe probabilmente richiesto un lavoro immenso. Non è necessariamente una critica, in quanto il look and feel generale è estremamente positivo, e la presenza di musiche ispirate e doppiaggi non fanno che confermare l’ottima riuscita del titolo. Se questo sia un must-have oppure no spetta a voi deciderlo, ma sicuramente rappresenta una vittoria per gli appassionati, nonché una dimostrazione di come i classici siano ancora vivi e presenti in ognuno di noi, pronti per essere riscoperti.