Recensione The Flame in the Flood
di: Santi "Sp4Zio" GiuffridaFondata da alcuni sviluppatori veterani dal portfolio invidiabile (Bioshock, Guitar Hero e Halo), Molasses Flood debutta nel panorama videoludico con il rilascio di The Flame in the Flood, un curioso survival game che non potevamo non analizzare. Vediamo insieme se merita la vostra attenzione.
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Non ci resta che sopravvivere
E’ banale dirlo ma ve lo diciamo lo stesso: nei survival game l’obiettivo cardine è sopravvivere, fronteggiando ogni possibile insidia e portando quindi a casa la pellaccia. Ecco, The Flame in the Flood non è da meno e ci propone uno scenario post-apocalittico in cui, per qualche oscura ragione, l’acqua ha letteralmente fagocitato la civiltà per come siamo soliti intenderla. Quel che è rimasto è solo qualche isolotto in cui la temerarietà dell’animo umano trova conforto. Nei panni di una giovane sopravvissuta senza nome, praticamente una ragazzina come tante, siamo dunque chiamati a sopravvivere il più a lungo possibile dominando un fiume in piena a bordo di una zattera sgangherata e perlustrando ogni zona alla ricerca di tutte quelle risorse che possono tornarci utili. Essere testimoni dell’alba del giorno dopo ha un prezzo: la nostra protagonista, supportata dal fedele cane Aesop, deve alimentarsi, idratarsi, riposarsi e restare in buona salute, senza subire i capricci della natura. Tenere traccia di tutti i fabbisogni è di fondamentale importanza e, per nostra fortuna, è sufficiente affidarsi ai rispettivi indicatori saggiamente posizionati nella parte inferiore dello schermo. Scegliere la strada più congeniale ed esplorare l’area giusta al momento giusto è praticamente un terno al lotto. Già, perché tutto viene generato proceduralmente, senza schemi predefiniti, per cui l’unica è adattarsi al mondo circostante e sperare che le risorse siano proprio lì, pronte per occupare uno degli slot disponibili del nostro inventario. Sono sufficienti pochi minuti di gioco per capire come il gameplay del titolo sia fortemente basato sul looting e sul crafting, ancor prima che sull’esplorazione. Collezionare provviste ed oggetti e combinarli tra loro è praticamente imperativo, anche solo per rendere potabile l’acqua o per catturare qualche coniglio indifeso, facendo bene attenzione, di tanto in tanto, ai lupi famelici. Qualora veniste attaccati da questi simpaticoni a quattro zampe, infatti, potreste subire delle ferite più o meno importanti, con il rischio ultimo di beccarvi un’infezione fatale. Avere tutto il necessario per potersi curare è quindi l’unica via per scongiurare la morte permanente. La sensazione dominante che il gioco riesce ad infondere è quella di pericolo costante, come se ogni nostra azione potesse essere l’ultima. Nessuna certezza. Da questo punto di vista la difficoltà di gioco è parecchio elevata, specie considerando la scarsa attitudine user-friendly del sistema di crafting e la mancata localizzazione in lingua italiana. Superato questo primo scoglio, comunque ingombrante, il gioco sa regalare qualche soddisfazione ma è altrettanto vero che alla lunga sentirete il peso della ripetitività.
Artisticamente parlando, The Flame in the Flood si presenta più che bene, con uno stile cartoonesco spigoloso dalle tonalità scure, perfettamente in linea con l’atmosfera post-apocalittica. Il tutto è però guastato da un leggero effetto tearing che, in un titolo di questa portata, non trova assolutamente alcuna giustificazione tecnica.
L’accompagnamento audio, invece, è un incentivo non indifferente a portare a termine la campagna, grazie a musiche evocative composte da Chuck Ragan, un gigante poco conosciuto in Europa, e alcune indie-band locali.
Strada e meta non sono la stessa cosa
E’ giusto dirlo senza peli sulla lingua: The Flame in the Flood ha personalità ma lascia l’amaro in bocca. Si poteva e si doveva fare di più. Il gameplay, per quanto funzionale e ben ancorato alla tradizione, è troppo ripetitivo e a tratti semplicistico. La sceneggiatura è una bottiglia di Vodka riempita d’acqua. Capite la metafora?
Insomma, i fan del genere potrebbero pure apprezzarlo, a patto che siano disposti a chiudere un occhio, ma tutti gli altri, quelli che amano vivere una storia ben raccontata e avere a che fare con un gameplay a prova di noia, farebbero meglio a rivolgere lo sguardo altrove.
L’ennesima prova che dei nomi altisonanti, come quelli degli sviluppatori, a volte non bastano per rompere il silenzio della mediocrità e della monotonia.