Recensione The Dark Pictures Anthology: The Devil in Me
di: Simone CantiniOramai è tradizione, almeno da 4 anni a questa parte: autunno è diventato sinonimo di Supermassive Games e The Dark Pictures Anthology, la serie di produzioni narrative che, grazie a The Devil in Me, giunge oggi al quarto episodio ufficiale, che sancisce anche la chiusura della prima stagione del progetto. Abbandonata le assolate lande dell’Iraq post 11 Settembre, lo studio britannico è pronto a trasportarci nell’America contemporanea, in un brutale gioco che ricalcherà le spietate gesta di H. H. Holmes, il primo serial killer della storia statunitense. Siete pronti a trascorrere, in compagnia del consueto cast di sventurati personaggi, un piacevole fine settimana all’insegna del divertimento e della spensieratezza? Se la risposta è sì, fareste bene ad acquistare un altro gioco…
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L’arte di uccidere
Le cose non vanno poi così bene alla Lonnit Entertainment, dato che il programma Gli Architetti della Morte sembra oramai prossimo alla cancellazione. E dire che le storie legate ai serial killer più famosi della storia dovrebbero rappresentare un motivo di interesse per il pubblico televisivo, ma forse sono proprio le risicate possibilità del piccolo studio di produzione a non rendere giustizia a tale argomento. Sarà il caso di gettare la spugna e passare bellamente oltre? Un’ipotesi scongiurata in seguito alla chiamata di un certo Du’Met, che dichiara di essere in possesso di numerosi cimeli legati allo spietato Henry Howard Holmes, il primo serial killer americano. Impossibile, per Charlie e la sua troupe, resistere all’invito dell’uomo, che si offre di ospitarli presso la sua isola privata, all’interno della riproduzione del tristemente celebre Castello della Morte, l’albergo che fu teatro dei massacri del brutale assassino. Giusto il tempo di una breve corsa in auto, ed un passaggio in traghetto, ed il riscatto della Lonnit sembra pronto ad essere servito su di un piatto d’argento. Peccato, però, che come la tradizione cara a The Dark Pictures Anthology ci insegna, i ragazzi di Supermassive Games sono sempre prodighi di sadiche situazioni quando si tratta di tormentare le proprie creature digitali. Ed anche questo The Devil in Me pare proprio intenzionato a rispettare questa lugubre, quanto spassosa, usanza. Ecco, quindi, che quello che avrebbe dovuto essere un banale weekend lavorativo, finirà per trasformarsi rapidamente in due giorni all’insegna della morte e della sopravvivenza, in cui echi cari a Saw, Shining e Psycho faranno di tutto per affacciarsi sullo schermo, dando vita a quella che, almeno sulla carta, rappresenta l’avventura più intrigante dell’intero pacchetto che caratterizza la Season One della produzione realizzata sotto l’ala protettrice di Namco Bandai. Il merito è tutto da ritrovare nell’ambientazione scelta, quanto mai azzeccata (per quanto non certo originale), ma che grazie alla sua subdola costruzione finisce per divenire il vero e proprio main character del titolo, in virtù della sua claustrofobica e mutevole conformazione, capace di restituire un senso di ansia ed oppressione come non si erano mai visti in uno degli altri episodi dell’antologia. Peccato che a latitare, stavolta, sia il cast di personaggi, le cui caratterizzazioni sono quanto mai abbozzate e prive di un reale approfondimento, situazione che rende difficile empatizzare con loro, e rende il nostro cercare di farli sopravvivere agli orrori un puro e semplice esercizio ludico.
Ampliare la paura
È sul fronte del gameplay che, pur senza stravolgere in modo radicale i dettami ludici già sperimentati, The Devil in Me cerca di compiere i maggiori passi in avanti, quasi come se questo capitolo conclusivo fosse una sorta di banco di prova delle evoluzioni che, mi auguro, ci attenderanno a partire dalla prossima stagione, già anticipata dal consueto trailer presente in chiusura di avventura. I passi avanti più evidenti, per quanto limitati dalla natura ludica del titolo, sono da riscontrare nella pura esplorazione, adesso sensibilmente più libera ed ampliata rispetto a quanto ricordavamo. Questo è sicuramente reso possibile anche dall’ambientazione scelta, che ben si sposa ad una analisi dell’ambiente dal respiro più ampio. Si tratta di un espediente dalla duplice valenza, sia ludica che narrativa, dato che il vagare per le stanze della magione sarà indispensabile per reperire un gran numero di documenti, chiamati a sviscerare gli aspetti narrativi che accompagnano l’incedere di The Devil in Me (una trovata che, per quanto anacronistica, continuo ad adorare in maniera spassionata). Esaminare minuziosamente lo spazio, inoltre, servirà per recupera degli oboli, che potremo scambiare nel menu principale con alcuni modelli 3D dei vari personaggi: una piccola aggiunta che amplia la già buonissima rigiocabilità garantita dai vari bivi narrativi. Questa voglia di espandere le fondamenta di gameplay si ritrovano anche nella gestione dei membri del cast che, stavolta, potranno contare su di un piccolo ed elementare inventario, oltre che su alcuni perk particolari in grado, in una sparuta manciata di situazioni, di aumentare l’interattività del player. Si tratta di azioni molto semplici e mai veramente game changer, ma che evidenziano la volontà del team di andare oltre le canoniche meccaniche. A dispetto della buona volontà messa sul piatto, però, l’ultimo lavoro Supermassive non riesce realmente a spiccare il volo, al punto da risultare la summa dell’esperienza maturata in questa prima quadrilogia. I punti critici dell’avventura sono da riscontrare, oltre che in questi abbozzi di rivoluzione, nel ritmo generale che, soprattutto nella prima parte, risulta inutilmente diluito, con la suspance legata unicamente ad alcuni prevedibili jumpscare. È tutto il costrutto sottinteso dal maniero che, in barba al suo elevato potenziale, finisce per esaurirsi in maniera quanto mai banale, con gli eventi in grado di farci sentire realmente in pericolo di vita che si contano sulle dita di una mano, con il lavoro sporco legato all’ansia che ricade sulle spalle di regia e colonna sonora: il consueto gioco al massacro funziona anche stavolta, ma pare sparare a salve in più di un’occasione, al punto da far sembrare banalmente sprecato l’ottimo potenziale offerto dal setting.
Voci stonate
A livello puramente tecnico non si riscontrano particolari scossoni in questo The Devil in Me, che si incunea in maniera evidente all’interno del solco tracciato dai titoli precedenti. Per quanto pregevole nella costruzione dei modelli dei vari personaggi, estremamente fedeli alle loro controparti reali, questi soffrono ancora di un mocap sin troppo robotico che, in svariati frangenti, finisce per rappresentare un ostacolo all’effettiva immersione del giocatore. Nulla da dire, invece, per quanto riguarda la pure direzione artistica generale, che è riuscita a offrirci un’ambientazione claustrofobica e sinistra al punto giusto, grazie anche ad un’illuminazione convincente e ad un’effettistica fuori parametro che, per mezzo di gemiti, scricchioli e rumori vari, ci lascia sempre in omaggio un piacevole brivido lungo la schiena. A rovinare il tutto, pertanto, ci pensa la pessima localizzazione audio nostrana, con un voice acting non sempre perfetto ed espressivo al punto giusto, a cui si accompagnano frasi troncate a metà ed intere linee di dialogo rimaste inspiegabilmente in lingua originale. Si tratta di uno scivolone non da poco per una produzione che fa dell’esperienza cinematografica il proprio mantra. Naturalmente non poteva mancare, in aggiunta alla modalità in singolo, il comparto multigiocatore già sperimentato in passato, che ci permetterà di condividere le nostre paure sia con compagni di divano che amici online.
The Dark Pictures Anthology: The Devil in Me mi ha fatto davvero arrabbiare, dato che avrebbe dovuto rappresentare la summa dell’esperienza maturata da Supermassive in questo progetto, ma che ha finito per cadere vittima di alcune marchiani errori di progettazione. Se è vero che, ludicamente parlando, l’offerta risulta la più variegata ed ampia del lotto, complici alcune introduzioni per quanto embrionali, la durata sin troppo dilatata ha finito per diluire i momenti di vera tensione attiva, che per quanto sempre presente risulta legata più alla costruzione degli ambienti che alle situazioni ludiche vere e proprie. Ovviamente non sto parlando di una sonora bocciatura, dato che chi, come il sottoscritto, apprezza la visione creativa del team britannico finirà per divertirsi ancora una volta, ma è ugualmente innegabile come il potenziale nascosto in questa sadica storia abbia finito per risultare meno esplosivo di quanto avrebbe potuto essere. A questo punto non ci resta che attendere gli sviluppi della prossima stagione, sperando che le velleità di ampliamento finiscano per trovare la loro giusta sublimazione.