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Recensione Resident Evil: Village

di: Simone Cantini

Sembra ieri che il mio coinquilino, ai tempi dell’università, si presentò in casa con una scatoletta grigia ed una manciata di CD, rigorosamente masterizzati, tra i quali spiccava, oltre alla settima Fantasia Finale, anche un disco con su scritto a pennarello Biohazard. Già, perché da bravi pirati ci era capitata per la mani la release nipponica dell’horror Capcom e, nonostante il bizzarro mix tra inglese e giapponese, non fu difficile innamorarsi dei Jill e Chris, mentre vagavamo tra il divertito e lo spaventato tra i corridoi dell’iconica villa Spencer. E ridendo e scherzando la serie mi (e ci) ha accompagnato per oltre 25 anni, seppur tra alti e bassi, tornando oggi a proporre nuove aberrazioni genetiche grazie Resident Evil: Village, l’ottavo capitolo ufficiale del brand.

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“Ethan Winters!”

Sono passati 3 anni da quando Ethan Winters è riuscito a strappare dalle grinfie della famiglia Baker, grazie anche all’aiuto di Chris Redfield, sua moglie Mia. Gli orrori di cui i due sono stati testimoni, però, sono duri da dimenticare, oltre che causa di potenziali minacce, pertanto sarà proprio il membro della BSAA a spingere la coppia a trasferirsi nell’Europa dell’est, fornendo loro una nuova identità e permettendogli di iniziare una nuova vita. La ritrovata sicurezza però, viene bruscamente interrotta proprio dallo stesso Chris, che una sera fa irruzione nella casa di Ethan e Mia, trucidando la giovane e rapendo il nostro sventurato eroe e la piccola Rose, la figlia della coppia, senza fornire alcune spiegazione. Un incipit bruciante e frenetico, già oggetto dei primi trailer che hanno accompagnato il reveal della produzione Capcom, e che finisce non appena il protagonista del precedente episodio riprende conoscenza, immerso nella neve, accanto ad un membro della BSAA deceduto ed al furgone distrutto sul quale era stato portato via dalla propria abitazione. Perso in un luogo a lui sconosciuto, ed angosciato per la situazione, l’uomo si fa strada sino ad un villaggio apparentemente abbandonato, origine del nuovo incubo che attenterà in più e più modi alla sua esistenza. Si apre così Resident Evil: Village, l’ottavo capitolo del brand, che si configura, per la prima volta nella longeva storia del saga, come seguito diretto dell’episodio precedente, di cui riprende con veemenza numerosi elementi, a partire dalla tanto vituperata (senza motivo, mi sento di aggiungere) visuale in prima persona. L’ispirazione del team, però, come più volte ricordato anche dal director Morimasa Sato, non si limita al passato recente, ma affonda le proprie radici anche in quel quarto episodio, considerato il vero spartiacque del franchise. Quello che ne è emerso, quasi come se fosse un bizzarro esperimento firmato Umbrella, è un titolo in cui elementi horror ed esplorativi si fondono con un’anima più action, in cui abbondano i momenti di puro shooting, senza però che l’equilibrio dell’esperienza finisca per essere prepotentemente sbilanciato in una direzione. In tal senso il ritmo del gioco si assesta su buonissimi livelli, alternando porzioni più riflessive e compassate (per quanto si possano definire tali in un horror) ad altre più serrate e frenetiche, così da mantenere sempre vigile l’attenzione del giocatore. Strutturalmente parlando, pertanto, è davvero difficile muovere qualche critica a Resident Evil: Village, che grazie ad una struttura più aperta rispetto al passato, propone un’esperienza quanto mai sfaccettata, interessante in quanto a costruzione degli eventi della main quest, e a cui si affiancano piccoli incarichi secondari, utili sia ad aumentare la longevità generale, sia per permettere ad Ethan di rinvenire particolari manufatti e scontrarsi con miniboss opzionali. Il focus, pertanto, grazie ad un backtracking sempre stimolante, oltre che sulla mera sopravvivenza verterà anche nell’esplorazione della vasta mappa di gioco, che saprà sempre come divertire e ricompensare i giocatori più curiosi.

Incastri forzati

Se ludicamente parlando gli appunti da muovere sono pochi, discorso differente deve essere fatto per quanto riguarda la sceneggiatura che funge da collante tra le varie sezioni che, dopo la positiva sorpresa del settimo episodio, compie un netto passo indietro, sia per qualità che per coerenza all’interno della cronistoria del brand. Se è pur vero che l’Umbrella, per come l’abbiamo conosciuta sin dal principio, non esiste più, è innegabile, una volta giunti ai titoli di coda, come gli eventi vissuti nel villaggio si incastrino in maniera decisamente forzata nella lore della saga, con i vari riferimenti al passato che appaiono un po’ troppo buttati là per essere credibili ed appassionanti (per quanto possa essere plausibile la serie nella sua interezza, sia chiaro). Certo, non mancano tasselli interessanti, utili a tappare qualche buco accumulato nel corso degli anni, ma si tratta davvero di piccoli momenti. La stessa natura delle B.O.W., inoltre, finisce per assumere contorni a tratti più sovrannaturali che biologici, inquinando in un modo che non tutti i fan potrebbero apprezzare alcune delle tematiche portanti. E dire che il cast di villain è tratteggiato in modo davvero interessante, oltre che in grado di regalare sezioni ludiche completamente differenti tra di loro, così da dare vita ad un’esperienza variegata e capace di toccare tutte le varie sfumature dell’horror: ad una sezione nel castello Dimitrescu che pare presa di peso dal primo Resident Evil, passiamo alla paura psicologica di Casa Beneviento, per giungere poi al mix puzzle/platform di Moreau e concludere il tutto con la fase più action nella fabbrica di Heisenberg. Quattro storie, più lo scontro finale, che mettono sul piatto situazioni e gameplay completamente differenti, oltre che ben caratterizzate, e che hanno saputo riproporre e rielaborare con efficacia i migliori momenti del settimo e del quarto capitolo.

Un “grosso” aiuto

Se siete tra coloro che sono sopravvissuti agli orrori di casa Baker, il gameplay di questo Resident Evil: Village non riserverà certo sorprese, dato che anche in questo caso parliamo di un’avventura in prima persona, che mescola esplorazione ed enigmi ambientali a fasi in perfetto stile FPS. Come detto in precedenza, pertanto, a rubare l’attenzione ci pensa la progressione generale, con il suo saliscendi di situazioni, e che prenderà sempre il via dall’hub centrale che è il villaggio. Una location, questa, che si aprirà poco a poco sotto gli occhi del giocatore, man mano che proseguiremo nella trama e che recupereremo le indispensabili ed iconiche chiavi. Girare per le sue strade innevate e le capanne fatiscenti saprà sempre ricompensare, sia nella forma di preziosi oggetti (indispensabili per il crafting) o munizioni, sia grazie a documenti in grado di ampliare la lore del titolo. Non mancano, ovviamente, numerose armi da fuoco, che potremo sia rinvenire in game che acquistare presso l’emporio itinerante del Duca, un corpulento mercante che strizza l’occhio in modo palese all’uomo incappucciato conosciuto ad El Pueblo. Una figura enigmatica, questa, che oltre a migliorare gli strumenti di offesa di Ethan, vendere oggetti ed acquistare i tesori recuperati nel gioco, potrà anche cucinare (se gli porteremo gli ingredienti necessari) alcuni manicaretti, che serviranno ad aumentare permanentemente alcune caratteristiche del nostro protagonista. Una crescita, la sua, che esulerà dal semplice incremento di statistiche, ma si rivelerà marcata anche a livello puramente psicologico: l’uomo che controlleremo adesso, difatti, non sarà più lo spaurito marito in cerca della moglie perduta, catapultato suo malgrado in un incubo da cui cercherà di fuggire, bensì un individuo combattivo e pronto a tutto, che non si tirerà indietro anche al cospetto della mostruosità più spaventosa. Questo si riflette anche nel modo in cui saremo chiamati a gestire le fasi shooter, che seppur non certo chirurgiche come nel caso di soldati super addestrati, sono risultate più raffinate e precise di quanto vissuto a casa Baker.

A cavallo di due mondi

Nonostante i proclami fatti da Capcom, secondo i quali le release per old gen di questo Resident Evil: Village sono nate in seguito allo sviluppo per PS5 e Xbox Series X/S, una volta avviato il gioco la natura crossgenerazionale della produzione emerge in maniera sin troppo evidente. Pur con i suoi bravi distinguo. Sulla bontà del RE Engine credo sia inutile spendere ulteriori parole, dato che il motore proprietario della casa di Osaka è riuscito già a dimostrare tutte le proprie qualità. Questo si traduce, nella prova effettuata su PS5, in un frame rate decisamente solido (con RT attivo, per quanto non proprio il top di quanto visto sino ad oggi), che perde qualche piccolo colpo soltanto in situazioni sporadiche. Decisamente più blanda, invece, la qualità generale delle texture, soprattutto nelle ambientazioni esterne, le quali sono risultate a tratti sin troppo rozze e poco definite. Discorso differente, invece, per quanto riguarda le fasi all’interno, sicuramente più rifinite in tal senso. In entrambi i casi, comunque, stupisce la cura per il dettaglio che gli artisti di Capcom hanno riposto nella creazione delle ambientazioni, ricolme come non mai di oggetti ed elementi scenici, oltre che impreziositi da una buonissima illuminazione e da effetti ambientali ben realizzati. Peccato per la solita interazione che si limita ad alcune casse e vasi, con il resto delle suppellettili che rimane impassibile alle nostre azioni. Buonissimo anche il character design generale, che mostra ulteriori passi avanti per quanto riguarda la recitazione digitale e la modellazione generale dei vari character, anche quelli più marginali. Ottima la resa sonora generale, con una eccellente implementazione dell’audio 3D (le nuove Pulse, in tal senso, ringraziano molto), così come solido è risultato il doppiaggio nostrano, anche se continuo a trovare non perfettamente a fuoco la performance di Ethan. Qualche appunto anche in merito a parte dell’effettistica, con il suono del fucile che proprio non sono riuscito a mandare giù. Da applausi, per quanto marginale, lo sfruttamento dell’SSD di PS5, che si traduce in un’attesa di circa 3 secondi dalla dashboard della console all’ingresso in partita, con caricamenti praticamente inesistenti quando già dentro all’applicazione. Nella norma la longevità, che a livello normale e con buona parte degli incarichi secondari completati mi ha portato via poco meno di 9 ore. Gli incentivi alla rigiocabilità, oltre al New Game+, sono da ritrovare nella modalità Mercenari, oltre alle sfide in-game utili a sbloccare bozzetti, nuovi armi e munizioni infinite.

 

Se dicessi di non avere apprezzato Resident Evil: Village sarei un irrimediabile bugiardo, ed infatti l’ultima avventura di Ethan mi ha divertito molto, anche se a conti fatti ho riscontrato qualche piccolo passo indietro rispetto alla precedente iterazione. A livello di puro gameplay c’è davvero poco da rimproverare al titolo Capcom, che è riuscito a proporre un’esperienza quanto mai variegata e ben costruita, oltre che accompagnata da un level designa tutt’altro che banale e mai come ora aperto all’esplorazione. La volontà di mescolare elementi ludici del quarto e del settimo capitolo ha dato vita ad un survival horror sicuramente solido, le cui uniche pecche sono da ritrovare a livello di scrittura, oltre che di aderenza alle tematiche storiche del brand. È innegabile, difatti, che nonostante la serie abbia volutamente cambiato pelle nel corso degli anni, nel caso dell’avventura in questione i legami con il passato siano quanto ai labili, nonostante la volontà di inserire il tutto nella lore generale. Questo eccessivo snaturamento dell’identità del brand rappresenta, in definitiva, l’unico passo falso di Resident Evil: Village, sicuramente un peccato veniale che potrebbe passare inosservato ai fan meno intransigenti, ma che sicuramente i più strenui sostenitori della continuità autoriale potrebbero perdonare con minore facilità.