Recensione P1: Anchor Light
di: Simone CantiniGli horror videoludici vivono di filoni, tanto che non è raro vedere produzioni legate da meccaniche simil-fotocopia affrettarsi a riempire gli scaffali non appena l’exploit di turno inizia a mietere consensi. Era successo con i survival vecchia scuola alla Resident Evil, passando per quelli in chiave hide and seek capitanati da Outlast, fino a giungere a quelli più moderni che basano le proprie velleità spaventose sulla caccia alle anomalie. Solo poche settimane fa vi avevo raccontato di Captured e del suo gameplay che ci chiedeva di aguzzare la vista ad ogni loop, mentre oggi vi parlo del suo fratello gemello P1: Anchor Light che, guarda un po’ il caso, funziona praticamente allo stesso modo, salvo qualche piccola variazione sul tema.
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Luce nel buio
In P1: Anchor Light, Deadbolt Interactive ci porta in un faro opulento e decadente, dove ogni angolo nasconde un segreto. L’ambientazione è il vero protagonista, con il suo mix di eleganza retrò e inquietudine palpabile, che ricorda le suggestioni di Rapture ma con un’anima più claustrofobica e mentale. Il faro, un tempo simbolo di guida, diventa il fulcro di un incubo visivo e sonoro, con entità che sussurrano e si manifestano in modi sempre più disturbanti.
La storia si svela poco a poco, tra documenti, visioni e dialoghi criptici. Non tutto viene spiegato, e questo è parte del fascino: il giocatore è chiamato a interpretare, a dubitare, a ricostruire. Il faro è solo la punta dell’iceberg, e dietro la sua luce si nasconde un mondo di dolore e memoria.
Nove piani di morbidezza
Come già detto, il cuore di P1: Anchor Light è la caccia alle anomalie, con il giocatore chiamato a identificare e neutralizzare distorsioni della realtà, in un gameplay che richiede attenzione ai dettagli e nervi saldi. Rifuggendo il becero espediente dei jumpscare, l’orrore è sottile, insinuante, e si manifesta attraverso oggetti fuori posto, luci che tremolano, suoni che non dovrebbero esserci. Il ritmo è lento ma teso, e ogni errore può costare caro.
Ogni sbaglio può scatenare conseguenze imprevedibili, e il gioco non perdona la superficialità. Non ci sono armi, né salti nel vuoto: solo il giocatore, la sua mente e un ambiente che mira a spezzarlo senza pietà. Tutto è ambientato all’interno della medesima location, una stanza che si ripete quasi uguale a sé stessa ogni volta che la abbandoneremo: l’obiettivo sarà superare i nove piani in cui è diviso il faro per spezzare questa maledizione. Avremo sempre dinanzi a noi due porte: una da imboccare se l’ambientazione è priva di anomalie, mentre l’altra dovrà essere varcata se notassimo qualcosa che non va.
Silenzio!
Ad aumentare la tensione ci saranno momenti in cui dovremo stare immobili o in silenzio, e che su PS5 sfruttano le peculiarità del DualSense per acuire l’immersività. Come nel caso del citato Captured, starà al giocatore lasciarsi trasportare dall’atmosfera, che sarà la discriminante tra paura e noia: in definitiva, ci troviamo dinanzi a una caccia alle differenze in salsa videoludica, con zero rischi per il nostro avatar, che al peggio sarà semplicemente costretto a ripartire da capo.
Graficamente, P1: Anchor Light non punta al fotorealismo, ma alla suggestione: texture curate, illuminazione dinamica e un uso magistrale del colore rendono ogni scena memorabile. Su console, il titolo gira fluido, con caricamenti rapidi e una resa visiva alquanto convincente, che gode dell’indubbio boost garantito dall’estetica art déco che strizza, come detto, l’occhio alla Rapture di Bioshock. Ma è l’audio a rubare la scena. Il sound design è chirurgico: ogni scricchiolio, ogni eco, ogni nota musicale è pensata per destabilizzare. Giocarlo in cuffia è quasi una tortura, ovviamente nel senso migliore del termine.
P1: Anchor Light non reinventa il genere, ma lo esplora con eleganza e precisione. La sua forza sta nell’atmosfera, nel sound design e nella capacità di trasformare la semplice osservazione in tensione pura. È un’esperienza che premia la pazienza e l’attenzione, ideale per chi cerca un horror psicologico più sottile e immersivo. Se la caccia alle anomalie ti intriga e ami perderti in ambientazioni dense di significato, questo faro potrebbe illuminare le vostre notti, quanto spegnerle del tutto. I limiti di questa tipologia di horror, ovvero l’assenza di minacce reali e una marcata ripetitività, non lo rendono adatto a tutti i palati.