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Recensione Madison

di: Simone Cantini

E zitto zitto, tra poco meno di un mese, P.T. festeggerà il suo nono compleanno. Tanti, difatti, sono gli anni trascorsi da quando quel teaser dedicato al mai rilasciato Silent Hills fece la sua comparsa all’interno del PlayStation Store. E a dispetto del tempo passato, la sua eredità non ne vuole ancora sapere di essere lasciata da parte, segno evidente di come l’idea di gameplay, per quanto minimal, partorita da Hideo Kojima, abbia avuto un impatto importantissimo sul medium videoludico. Sia che si parli di semplici giocatori che degli addetti ai lavori veri e proprio. Ecco, pertanto, che in questi nove anni abbiamo assistito al proliferare, con esiti non sempre esaltanti, della progenie di questo esperimento, capace di modificare la natura delle esperienze horror digitali. E che da poco hanno accolto tra di loro l’interessante Madison.

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I panni sporchi si lavano in famiglia

La scena si apre su di una stanza immersa in un buio rischiarato soltanto dal tenue bagliore di una TV. Non sappiamo perché ci troviamo barricati al suo interno, né perché nostro padre ci inveisca contro al di là di una porta sbarrata, lanciandoci accuse in merito a quanto fatto alla nostra famiglia. I ricordi si fanno confusi, così come la vista, ma capiamo subito che dobbiamo uscire di qua al più presto, prima di finire tra le grinfie del nostro infuriato genitore. Bastano pochi attimi per scorgere un piccolo pertugio, che ci condurrà in salvo all’interno della vecchia casa dei nostri nonni: quello che era un luogo felice, legato ai ricordi della nostra infanzia, si tramuterà presto in una sinistra prigione, non appena rinverremo al suo interno una strana macchina fotografica a sviluppo istantaneo. E tra sussurri impercettibili, presenze opprimenti ed indizi che rimandano ad un serial killer ritenuto morto da anni, finiremo per sprofondare presto in un vero e proprio incubo, perennemente in bilico tra realtà e follia. E che ci porterà a fare luce su di un’oscura minaccia che incombe da decenni sulla nostra famiglia. Un incipit, quello di Madison, che sicuramente non potrà che lasciare impressa una sensazione di déjà vu in tutti gli appassionati di horror, con i più attenti che vi ritroveranno anche dei chiari rimandi al substrato narrativo che animava quel P.T. citato poco sopra. Al di là di uno sviluppo tutto sommato prevedibile, a colpire nel segno in Madison, rendendo il tutto ben più originale di quanto potrebbe sembrare a prima vista, è il modo in cui l’avventura è costruita e che sfruttando la suddetta macchina fotografica, riesce a dare vita ad un insieme di puzzle decisamente stimolati e mai banali.

Cheese!

Il gioco si sviluppa lungo il canonico schema, oramai consolidato, della prima persona e, sebbene si tratti di un horror, i momenti in cui ci troveremo realmente in pericolo saranno giusto un paio, con la nostra eventuale dipartita che si concretizzerà più per motivi scenici che in ottica di vero e proprio game over. Quello che ci troveremo dinanzi durante le 7-8 ore necessarie a giungere ai titoli di coda, pertanto è più simile ad una vera e propria avventura, in cui saremo chiamati a risolvere svariati enigmi. Come detto, il nostro unico alleato in tal senso sarà la macchina fotografica, che ci servirà per scorgere dettagli invisibili ad occhio nudo, che potremo portare alla luce semplicemente scattando delle foto. Messa così sembra una cosa decisamente banale, ma visto il modo in cui il suo impiego si accompagna ad un buon uso del pensiero laterale, il mix che ne emerge è davvero convincente, in grado di andare oltre il semplice “trova la chiave per aprire la porta”. L’oggetto, inoltre, sarà utilissimo per rischiarare gli ambienti più buoi, oltre a risultare il nostro unico strumento di difesa contro le minacce che infestano il luogo (sebbene queste siano circoscritte ad un paio di situazioni). A questa intuizione sicuramente felice, però, si va ad accompagnare una scelta di design quanto mai discutibile, legata alla scellerata gestione dell’inventario: nel corso del gioco, difatti, potremo portare con noi un massimo di 8 oggetti, con i restanti che potremo stivare in alcune casseforti che ricordano i classici bauli di Resident Evil. Diciamo che se avessimo parlato di un gioco d’azione, in cui la gestione di quanto in nostro possesso avrebbe avuto un impatto attivo sul gameplay, avremmo potuto anche applaudire tale scelta. Data, però, la natura sicuramente più compassata di Madison, il dover spesso fare avanti ed indietro per recuperare un oggetto che credevamo non servisse è quanto mai fastidioso. E se consideriamo che tre slot saranno praticamente sempre occupate da macchina fotografica, foto e diario, capite bene come la decisione operata dal team risulti alquanto assurda. Giusto per chiudere l’elenco delle storture, vale la pena sottolineare un non perfetto sistema di rilevazione dei punti sensibili, complice un mirino pressochè invisibile (e minuscolo), a cui si accompagnano alcuni bug vari, che in qualche occasione hanno visto il gioco chiudersi improvvisamente. Il team, comunque, ha già confermato di essere al lavoro su di una patch, che dovrebbe essere resa disponibile a breve.

Non chiamatelo teaser

Anche a livello puramente visivo, l’eredità di P.T. è palpabile all’interno della messa in scena di Madison, con numerose sezioni che non possono non richiamare alla mente il teaser made in Kojima. Non mancano, comunque, rimandi alla casa dei Baker vista in Resident Evil 7, i cui echi sono palpabili soprattutto nella cucina della cupa dimora teatro degli avvenimenti del gioco. Al netto di queste contaminazioni, la resa stilistica generale è comunque uno dei fiori all’occhiello della produzione, grazie ad un design generale capace di rileggere con efficacia tali suggestioni. E a dispetto delle dimensioni ridotte del team, anche l’impatto estetico è risultato comunque convincente, pur in presenza di qualche elemento fisiologicamente meno a fuoco del resto. Ottimo senza riserve, invece, il comparto sonoro della produzione, ricco di suoni ambientali in grado di fare davvero la differenza, oltre che di spaventare a dovere nei momenti più opportuni: tra sussurri, crepitii e ticchettii sinistri, pur consci dell’assenza di pericoli immediati, la tensione che si respira nel corso dell’avventura è sempre palpabile. Buono anche il voice over in lingua inglese, supportato da una traduzione testuale in italiano, mentre per quanto riguarda il supporto a PS5 (console su cui ho effettuato la prova) ci si limita al grilletto sinistro, legato all’utilizzo della macchina fotografica.

Sono passati quasi 9 anni dal debutto di P.T., ma grazie (o per colpa, a seconda dei casi) di produzioni come Madison, questo lasso temporale sembra avere dimensioni ben più contenute. Se è vero, difatti, che il titolo si ispiri in modo palese al celebre playable teaser, il modo in cui i ragazzi di Bloodious Game sono riusciti a fornire la loro propria visione di quello schema ludico è sicuramente apprezzabile. Ad una storia tutto sommato prevedibile, difatti, fa da contraltare un gameplay interessante e stimolante, che grazie alla peculiare e non certo scontata natura degli enigmi saprà intrattenere a dovere i fan del genere. Certo, l’assenza costante di vere e proprie minacce potrebbe scontentare gli integralisti degli horror, ma al netto di ciò la sensazione di tensione e pericolo non finisce per risultare come messa in disparte. Sicuramente parliamo di un gioco non perfetto in ogni sua sfaccettatura, ma che è riuscito a non risultare una delle innumerevoli copie sbiadite (e prive di identità) della piccola creatura di Hideo Kojima.