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Recensione Lost Ember

di: Simone Cantini

Giusto per riprendere un concetto espresso in occasione dei miei auguri a PlayStation, ecco che mi ritrovo a parlare di un titolo che sembra aver approfittato dell’eredità tramandata dal marchio nipponico, scegliendo di affrontare il mondo videoludico da una prospettiva sicuramente più emozionale che ludica. Lost Ember, difatti, ha preferito spendere tutte le proprie carte nella volontà di raccontarci una storia, da vivere direttamente tramite il movimento delle nostre dita, per quanto filtrata attraverso dei poligoni controllabili. E ancora una volta mi ritrovo a chiedermi se un lavoro del genere possa essere definito videogame a tutti gli effetti.

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Memorie perdute

La morte non è un definitivo punto di arrivo nel mondo di Lost Ember, dato che ad attendere gli spiriti dei defunti non ci sarà l’eterno oblio, bensì un luogo paradisiaco conosciuto come Citta della Luce. Questa è la dimora di coloro che, in vita, si sono comportati correttamente, non indugiando in azioni malvage ma conducendo un’esistenza giusta ed onesta. L’accesso alla Città di Luce, pertanto, è negato alle anime dei malvagi e a quelle di coloro che si sono macchiati di azioni decisamente riprovevoli, i quali si ritroveranno a vagare nuovamente per il mondo sotto le spoglie di un animale. Ed è proprio dall’incontro di due esponenti di tali distinte realtà, che prende il via l’avventura dei ragazzi di Mooneye Studios, in cui un lupo ed uno spirito giusto si ritroveranno a vagare per il mondo in cerca dei propri ricordi, nel tentativo di comprendere come mai ad entrambi sia stato negato l’accesso alla paradisiaca città. L’opera del team si presenta come un’avventura narrativa del tutto priva di una qualsiasi forma di sfida o difficoltà, laddove dovremo semplicemente esplorare i bellissimi paesaggi che fanno da cornice alle vicende, in cerca delle memorie perdute dei due protagonisti. Per quanto sufficientemente ampie, le varie zone di gioco non offrono un approccio ludico di stampo puramente free roaming, dato che bene o male il percorso da seguire sarà unico, con le divagazioni esplorative utili soltanto al reperimento di un cospicuo numero di collezionabili. A sparigliare un poco le carte in tavola ci pensa, quindi, la possibilità di prendere possesso del corpo di altri animali, così da poter raggiungere porzioni di mappa fuori dalla portata del nostro corpo di lupo. Il sentiero termina in riva ad un profondissimo lago? Ecco che un agile pesce diviene rapidamente il nostro migliore compagno. Uno strapiombo interrompe la strada? Basta trasferire la nostra anima in un colibrì ed il gioco è fatto. Le possibilità sono molteplici e, ad una prima porzione in cui tutto è quasi fine a sé stesso, ci troveremo al cospetto di una parte conclusiva in cui tale meccanica rivestirà un ruolo molto importante. Al di là di tutto, comunque, il gameplay di Lost Ember si configura come estremamente semplice ed esile, alla strega dei più classici walking simulator, visto l’inesistente tasso di sfida proposto. Allora perché il voto finale non rappresenta una sonora bocciatura? Beh, a sorreggere tutta la struttura troviamo una storia sicuramente accattivante ed emozionale che, al netto di un incipit un po’ frettoloso e privo mordente, finisce per dispiegare poco a poco tutto il proprio potenziale, andando a tratteggiare una narrazione in grado di colpire al cuore, complice un finale che non si risparmia un piccolo colpo di scena ed una discreta dose di emozioni.

La forza di uno sguardo

Il merito di tutto ciò, al di là dell’esigua durata complessiva (siamo nell’ordine delle 3-4 ore, ricerca dei collezionabili esclusa), è dovuto al riuscitissimo design dei vari protagonisti che, per quanto inespressivi, riescono a trasmettere un senso di malinconia e disperazione come poche altre volte mi era capitato di percepire: è già sufficiente lo sguardo del nostro lupo a raccontare più di quanto non possano fare le parole, ma il vero colpo da maestro è rappresentato dal puntale ed efficace accompagnamento sonoro, capace di sottolineare alla perfezione i vari momenti di questo struggente racconto. Un ruolo importante, comunque, lo riveste anche il mondo che saremo chiamati ad esplorare, realizzato con perizia e con una resa grafica di tutto rispetto, che non si risparmia alcuni scorci e chicche visive degne di produzioni dal budget più consistente (attraversate di notte un prato abitato da lucciole e capirete di cosa sto parlando). Peccato che non si possa dire lo stesso per le performance tecniche, con un frame rate non sempre stabilissimo ed alcuni blocchi in fase di caricamento a farla da padrone. Si tratta di pecche alquanto fastidiose da vedere, ma comunque non in grado di rendere ingiocabile Lost Ember, vista la natura del titolo. Peccato anche per un paio di animazioni non proprio bellissime da vedere (le capre di montagna sono ridicole a dire poco), ma per fortuna si tratta di piccole, marginali, imperfezioni.

Giudicare in modo univoco Lost Ember è alquanto difficile, dato che dovessi valutarlo come gioco in quanto tale riuscirebbe a strappare solo una risicata sufficienza, vista la pochezza ludica dell’azione. Parte delle produzioni attuali, però, si basa su di una somma di elementi in cui il gameplay vero e proprio è solo parte del totale, visto come fondano il loro coinvolgimento complessivo anche su fattori molto più impalpabili ed emozionali. Ed in questo senso il titolo Mooneye si dimostra un diligente e riuscito figlio di questa consolidata new wave del gaming, visto il modo convincente con cui riesce a catalizzare l’attenzione di coloro che vogliono andare oltre la “semplice” pressione di alcuni tasti sul pad. E visto che il sottoscritto è felice che un simile genere sia riuscito ad attecchire, non posso fare a meno di premiare, seppur con qualche riserva, il lavoro del team.