Recensione Lost at Sea
di: Simone CantiniLa vita è tutto quello che ti accade mentre sei impegnato a fare altri progetti. Una frase, questa del leggendario John Lennon, che ben si sposa con le vicende narrate in Lost at Sea, una breve ma toccante avventura di stampo narrativo, sviluppata dai teutonici ragazzi di Studio Fizbin, che non mancherà sicuramente di toccare gli animi dei giocatori più sensibili. Una narrazione sicuramente rarefatta, ma non per questo meno incisiva, che avrebbe però meritato di essere supportata da un gameplay di ben altro spessore, come evidenzia bene il voto che, ahinoi, troviamo in calce a questa recensione.
accettare i cookie con finalità di marketing.
Naufragio emotivo
Nessun uomo è un’isola. Ecco, giusto per rimanere in tema di citazioni, stavolta tocca a John Donne, ho deciso di aprire così la disamina della parte narrativa di Lost at Sea. Il gioco, difatti, quasi a volersi fare beffe di quanto scritto dall’autore londinese, si apre con un surreale naufragio su di una sperduta lingua di terra, interamente circondata dal mare. Un luogo apparentemente placido e disabitato, bizzarramente caratterizzato da quella che sembra un’enorme petroliera, che si erge conficcata verticalmente sulla sommità della piccola collina che sovrasta questa landa ignota. Nessun uomo è un’isola, dicevamo, e neppure nessuna donna lo è, come dimostrerà ben presto Anna, la sfortunata protagonista di questa breve storia (in due ore e mezza circa sarà possibile completare il tutto, Obiettivi/Trofei compresi). Sarà, difatti, sufficiente muovere i primi passi sulla sabbia per imbattersi in una bizzarra struttura, una caotica raffigurazione della cameretta di un bambino, in cui spiccano quattro eterei ricordi apparentemente scomparsi. Il gioco ci inviterà allora, per mezzo di una bussola, a recuperare altrettanti oggetti, così da poter ripristinare queste memorie nascoste nell’animo della donna. Riuscire nell’intento sarà semplicissimo, dato che non dovremo fare altro che seguire la direzione indicata dall’ago dello strumento e, una volta giunti sul luogo, cimentarsi in dei semplicissimi minigiochi, che non richiederanno (a parte un paio di fastidiose eccezioni) che una esigua manciata di minuti per essere completati. Dovremo poi ritornare sul luogo di partenza, per sbloccare i ricordi in questione, e scoprire cosa si celi nel tormentato passato di Anna. Saranno quattro le location che dovremo completare, ognuna legata ad un particolare periodo della vita della donna, quattro dolorosi spaccati di un’esistenza che non ne ha voluto sapere di risparmiare dolore e sofferenza, perdite e sacrifici. Una storia semplice, così come la sua esigua sceneggiatura, ma che ha in questa sua composta asciuttezza il suo maggiore punto di forza, dato che ciascuno di noi potrà identificarsi anche soltanto in un piccolo frammento di questo accidentato percorso di vita. Delicato e rarefatto, Lost at Sea mette sulla scena un racconto tanto semplice quanto reale, che gioca tutte le proprie carte sulla semplicità universale del dolore, ma che non per questo finisce per scadere nell’inutilmente patetico. Una storia, quella della produzione Studio Fizbin, in cui l’accettazione del proprio essere ed il saper apprezzare i momenti piacevoli dell’esistenza, per quanto fugaci, rappresentano l’unico modo per affrontare le difficoltà, senza che il piangersi inutilmente troppo addosso finisca per rendere futili le perdite subite.
Mare di noia
Se mi dovessi fermare qua, pertanto, ecco che Lost at Sea finirebbe per essere sicuramente promosso, seppur non con il massimo dei voti, ma per lo meno con una abbondante promozione. Il problema, però, è quando la bontà della narrazione finisce per scontrarsi con le velleità ludiche della produzione: è allora che l’amalgama messo in piedi dal team tedesco finisce per crollare senza appello, scontrandosi brutalmente con un gameplay ed una realizzazione tecnica sin troppo banali e deficitarie. Tutto si muove all’interno dei rassicuranti confini dell’avventura narrativa, in odor di walking simulator, ma che ha nel suo sviluppo e nelle limitate interazioni giocose l’incarnazione della noia più totale. Complice un setting vuoto e sciattamente realizzato, il muoversi in cerca di indizi è più un impiccio che un piacere, complici anche i fastidiosi pensieri negativi di Anna, capaci di divenire tangibili senza alcun motivo logico (tipo il fumo di Lost), e che se non saremo in grado di evitare velocemente ci trasporteranno al checkpoint più vicino: una perdita di tempo inutile e superflua. Gli stessi minigiochi, inoltre, non brillano certo per perizia, ma risulteranno sin troppo banali e a tratti tediosi, sia che si tratti di scoppiare dei palloncini che di scortare un globo luminoso oltre alcuni muretti. Tutto avrebbe avuto un senso se l’isola avesse avuto qualcosa da raccontare, elementi in grado di giustificare il semplice camminare: penso a quei capolavori di What Remains of Edith Finch o Soma, in cui anche allo scenario era demandato il compito di ampliare il background narrativo. Lost at Sea, purtroppo, sceglie una strada diametralmente opposta, confezionando un level design anonimo e superficiale, in cui l’isola è solo un pretesto per rappresentare in maniera tangibile lo smarrimento di Anna, ma che finisce per configurarsi più come un fastidio, nella sua vacuità, che un valore aggiunto.
Vecchia nuova generazione
Ad acuire questo fastidio ci pensa anche una realizzazione tecnica quanto mai approssimativa, incapace di rendere giustizia ad Unity (il motore utilizzato dalla produzione), e che non riesce ad eccellere praticamente in nessun aspetto: modelli poligonali sin troppo elementari, texture scadenti ed un’effettistica deficitaria non possono essere giustificati neppure dal budget non certo importante di una piccola produzione indipendente. A complicare il tutto ci pensa anche qualche lieve scatto, inconcepibile su Xbox Series X, oltre ad un caricamento iniziale che sembra voler fare di tutto per scordarsi le prestazioni dell’SSD della console. Si salva il comparto audio, che può vantare un ottimo voice acting in lingua inglese (tutto è sottotitolato in italiano), oltre ad una colonna sonora minimale, ma toccante e delicata al punto giusto.
Lost at Sea si muove tremendamente in bilico tra due distinte realtà, quella narrativa e quella ludica, con la seconda che finisce per annullare la bontà della prima, visto che in fondo parliamo di un videogame. Le avventure narrative, difatti, per quanto rarefatte per quanto concerne i meri contenuti ludici, nel corso degli anni hanno dimostrato che si può divertire ed intrattenere anche in maniera più trasversale. Una lezione che, però. I ragazzi di Studio Fizbin non sembrano aver metabolizzato alla perfezione, visto la maniera superficiale e barbosa con cui hanno caratterizzato il gameplay della produzione. Privo di appeal e sin troppo monotono, l’apporto richiesto dal giocatore non riesce a rendere giustizia ad una sceneggiatura che, per quanto esile e contenuta, avrebbe meritato un supporto maggiore sul fronte del brutale impiego del pad.