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Recensione Kao the Kangaroo

di: Simone Cantini

A volte ritornano, anche se non ci eravamo realmente neppure resi conto della loro partenza, come nel caso in questione, ovvero quello di Kao the Kangaroo. Già, perché (non mi vergogno assolutamente a dirlo) personalmente non avevo il benchè minimo ricordo della serie sviluppata da Tate Multimedia, figlia del periodo d’oro dei platform 3D dell’epoca PS2. E pur avendo divorato praticamente quasi tutte le produzioni del genere, durante i ruggenti anni a 128 bit, ho comunque potuto farmi una cultura, per quanto tardiva, grazie a questo nuovo episodio, capace di incarnare in tutto e per tutto gli elementi cardine di questa mai dimenticata eredità videoludica.

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Guardarsi indietro

Per quanto divertenti e sicuramente apprezzate, le produzioni simili a Kao the Kangaroo non hanno certo mai brillato per complessità narrativa (salvo qualche rara eccezione), e la nuova fatica di Tate Multimedia sembra voler far di tutto per ricordarcelo. Il gioco ci scaraventerà, difatti, in modo molto brusco, nel bel mezzo dell’azione, senza fornire alcuno straccio di indicazione, ambientando questo brevissimo prologo all’interno di un incubo che ha per protagonista proprio il giovane marsupiale. Una piccola porzione ludica che, dopo pochi istanti, finirà per rivelarsi come un vero e proprio presagio relativo alla sparizione di Kaia e Koby, rispettivamente la sorella ed il padre di Kao. Armato di un paio di mistici guanti da boxe ed aiutato dal mentore koala Walt e dallo svampito pellicano inventore Gadget, il nostro piccolo eroe dovrà farsi strada attraverso quattro distinti biomi, ognuno suddiviso in vari livelli, al cui interno potrà dare libero sfogo alle proprie abilità. Confesso di non essere stato particolarmente colpito dal canovaccio messo in piedi dal team polacco, sinceramente privo di guizzi e vittima di una regia delle varie scene di intermezzo decisamente fiacca, a cui poco servono gli incerti slanci umoristici dell’esile sceneggiatura. Si tratta, comunque, di un difetto decisamente marginale per produzioni simili, dato che il piacere ludico ci giunge  dal gameplay vero e proprio. Ed almeno in tal senso, nel corso delle sue circa 5 ore di durata, Kao the Kangaroo si è dimostrato un valido esponente del genere (e del periodo) in questione, con tutti i pregi ed i difetti del caso.

I guanti del potere

Come anticipato, in Kao the Kangaroo ci troveremo a gironzolare per 4 distinti biomi, ognuno caratterizzato da uno stage principale che fungerà da hub, tramite il quale potremo accedere ai vari livelli del caso. Questi saranno sbloccati recuperando particolari rune, nascoste (nemmeno poi tanto) all’interno del mondo di gioco. L’esplorazione è quella classica dei platform 3D a telecamera libera, con Kao che potrà ovviamente saltare e menare le mani per sbarazzarsi delle buffe minacce che gli si pareranno davanti. Nulla di epocale o rivoluzionario, in definitiva., ma sorretto comunque da level design piacevole, capace di proporre anche qualche divagazione strutturale. A sparigliare un poco le carte, pertanto, ci penseranno i guanti magici di cui sarà dotato, che potranno essere imbevuti di vari poteri elementali, così da risolvere alcuni semplici enigmi ambientali: il fuoco, ad esempio, servirà per bruciare ostacoli o accendere peculiari piattaforme mobili; il ghiaccio ci permetterà di attraversare superfici altrimenti inaccessibili; il vento, invece, può essere impiegato per spostare vari elementi dello scenario. Nella maggior parte dei casi sarà richiesto l’impiego di un singolo potere, ma andando avanti nel gioco potrebbe essere necessari combinare tra loro vari effetti. Anche in questo caso la soluzione non sarà mai cervellotica, segno evidente di come la produzione sia comunque rivolta principalmente ad un pubblico di giovani, o veterani senza pretese. Un’ulteriore divagazione ci viene fornita da alcuni magici cristalli che, se colpiti, faranno comparire piattaforme altrimenti invisibili, così da aprire percorsi inizialmente non disponibili. Aggiungete al tutto alcuni collezionabili sparsi per i livelli e la possibilità di acquistare skin alternative ed alcuni boost per la salute di Kao, ed avrete già pronto il quadro generale. Un insieme di elementi sicuramente non rivoluzionari e particolarmente curati, ma che hanno il pregio indubbio di funzionare bene una volta avviato il gioco: sarà che vengo da un periodo intenso in compagnia di Elden Ring, ma pur con tutti i suoi limiti mi sono trovato ad apprezzare, seppur senza lodi particolari, la spensieratezza e la leggerezza dell’avventura di Kao the Kangaroo. Tecnicamente parlando, anche in questo caso ci troviamo al cospetto di un vero e proprio figlio della generazione a 128 bit, per certi versi anche per quanto concerne l’aspetto visivo: mondi e personaggi sono estremamente colorati, seppur assai schematici ed essenziali per quanto riguarda design e geometrie, ma pur sempre funzionali al tutto. Certo, visti i valori produttivi non proprio stellari, permangono alcune incertezze, che si traducono in intermezzi estremamente grezzi, qualche piccolo bug generico (un paio di volte sono stato costretto a riavviare la partita), texture non sempre impeccabili lato caricamenti ed una manciata di imprecisioni per quanto riguarda alcune collisioni. Nulla di compromettente, sia chiaro, ma vale la pena sottolinearlo. Anche sul fronte audio i guizzi latitano, con un doppiaggio poco ispirato ed una colonna sonora decisamente trascurabile.

Kao the Kangaroo è un onesto e palese omaggio ad un periodo ludico oramai radicato nel cuore di una schiera fetta di appassionati. Il titolo sviluppato da Tate Multimedia è un gioco semplice e diretto, che non mira certo a riscrivere la storia del genere ma che, conscio dei propri limiti, sceglie consapevolmente di proporre un’esperienza colorata e scanzonata. Sicuramente indirizzato più ad un pubblico di giovanissimi che alla schiera di esigenti veterani, l’avventura di Kao si configura comunque come un piacevole scacciapensieri, buono per far rifiatare il player in attesa di produzioni ben più estenuanti e complesse.