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Recensione Jump King

di: Marco Licandro

Come si genera un sentimento di frustrazione? Spesso giocando alcuni titoli ci troviamo di fronte ad alcuni livelli, o sfide, che semplicemente sembrano insormontabili. Talvolta ne andiamo volontariamente in cerca, nel tentativo di sbloccare un nuovo trofeo/obiettivo, accettando una missione particolarmente complessa che sembra giusto quel pelo al di fuori delle nostre abilità. Quando questo accade, proviamo e riproviamo, fin quando non riusciamo nell’impresa o semplicemente abbandoniamo del tutto, ma senza sfociare in frustrazione, no. Rabbia, magari, o noia nel dover rifare nuovamente un tratto già percorso, ma per arrivare al sentimento estremo dovremo giocare qualcosa di semplice, di fattibile, e che probabilmente non necessita neanche troppo impegno, ma che tuttavia non riusciamo a padroneggiare. Ebbene, Jump King è esattamente questo.

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Salta.

Si dice che lassù vi sia una gran figa.

Avete appena letto la trama del gioco. Avrete abbastanza testosterone da sfidare il semplice (all’apparenza) gameplay per arrivare alla sommità? 

Sarcasmo a parte, effettivamente il gioco non ha trama, ma l’effettiva difficoltà nel procedere nelle varie zone sembra essere abbastanza per gli sviluppatori per non averne una. O per avere una soundtrack (?). Il level design è sviluppato completamente in verticale, con varie piattaforme vagamente stabili sulle quali il nostro personaggio può atterrarvi dopo aver effettuato un salto. La distanza e potenza di questi ultimi sarà data completamente dal giocatore tramite la pressione più o meno prolungata del pulsante, permettendo al personaggio di saltare senza penalità in caso di fallimento, non essendoci infatti nessun game over e permettendo all’eroe di cadere da altezze spropositate senza effettivamente ricevere nessun danno. Altra particolarità è l’elemento del rimbalzo, che si manifesta nel momento in cui il personaggio urta una parete dopo un salto, per venire scagliato indietro con più o meno forza a seconda della potenza datogli. Questi due elementi chiave sono quanto vi è richiesto al giocatore da padroneggiare, e sono abbastanza per completare il gioco raggiungendo la sommità e scoprendo se la diceria sia vera.

Dove sta la sfida?

Come abbiamo detto, i livelli sono sviluppati in verticale, e dovremo quindi fare una sorta di scalata saltando e atterrando perfettamente sulle varie piattaforme, calcolando con precisione la potenza di salto e valutando i possibili rimbalzi su parete. Essendovi richiesta una alta precisione nei comandi, le probabilità di fallire nell’atterrare sulla piattaforma di destino sono molto alte, sfociando in una caduta. Quest’ultima non può essere in alcun modo modificata o influenzata dal giocatore, ed essendo le varie zone costruite una sopra l’altra, un solo fallimento potrebbe significare la perdita dell’avanzamento fino a tornare al punto di inizio, sfociando nella sopraddetta frustrazione e rabbia over level 9000 che solo i giocatori più zen potranno anche solo pensare di affrontare. Occorre infatti giocare sapendo di fallire, tramite modalità trial and error, fin quando non padroneggerete alla perfezione i comandi e riuscirete finalmente a passare quel punto che fino a pochi minuti fa sembrava insorpassabile… solo per fallire probabilmente il successivo e guardare inerti il nostro personaggio precipitare nell’abisso, nella speranza di incontrare una piattaforma di fortuna sul quale atterrare.

In conclusione

Non essendovi una trama o una colonna sonora, e potendoci basare solo sul gameplay e stile grafico, Jump King basa la sua esistenza su di un gimmick, puntando sulla difficoltà intrinseca del genere platform basato sul salto e su piccole piattaforme, senza tentare di aggiungere qualcosa di unico per rendere il titolo unico o in qualche modo memorabile. Lo stile grafico propone l’ormai estremamente abusato pixel art, che di arte sembra avere ben poco, non essendo né particolarmente curato né evocativo. Jump King propone un concetto semplice, forse fin troppo, senza andare oltre, e proponendo al giocatore un level design estremamente ostico e punitivo, che sfocia in un finale banale e privo di gioia, senza traccia di un qualunque tipo di end-game, lasciandoci con l’unica domanda che merita di essere risposta: chi ce l’ha fatto fare?