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Recensione God of War: Ragnarok

di: Simone Cantini

Può un semplice logo scatenare isterismi di massa e le risa convulse della platea videoludica, condite con abbondanti dosi di fremiti inconsulti? Beh, se il simbolo in questione è legato a God of War: Ragnarok, è bene lasciare lo stupore sul comodino, ed accettare con la più assoluta serenità tale manifestazione di pubblico piacere. Già, perché è innegabile come il diversamente tricotico Kratos rappresenti, sin dal suo debutto in odor di PS2, uno dei pezzi da 90 della scuderia ludica Sony. Un’icona di violenza e divertimento che, dopo aver corso il rischio di vedere le proprie gesta avvilupparsi inutilmente su loro stesse, ha saputo reinventarsi con successo, riscrivendo (senza tradire) i dettami della propria identità. Un rinnovato successo che affonda le proprie radici in quel clamoroso reboot datato 2018, che è riuscito nella non facile impresa di rinnovare un concept tanto semplice, quanto ostico da riproporre al sempre più raffinato (forse) pubblico degli appassionati di videogames. E proprio in virtù di tale successo, era lecito aspettarsi la fibrillazione suscitata dall’annuncio del nuovo lavoro firmato Santa Monica che, dopo essersi fatto attende, è finalmente giunto a rallegrare i nostri polpastrelli avidi di squartamenti. In barba al Fimbulwinter

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Crescere insieme

Il viaggio che aveva condotto Kratos ed Atreus sino alla vetta più alta dei Nove Regni, per spargere le ceneri di Faye, ci aveva lasciati con un bel po’ di gatte da pelare, complici le rivelazioni relative alla vera natura del figlio del Dio della Guerra e l’avvento del Ragnarok scatenato dall’uccisione di Baldur. Un groviglio di situazioni davvero complesso e ricco di sfaccettature, che ritroviamo anche in questo capitolo conclusivo della digressione norrena dell’eroe di Santa Monica. È passato un po’ di tempo dalla conclusione del capitolo precedente, ed il gelido Fimbulwinter sta spazzando incessantemente le lande di Midgard, ed è in questo spaccato di mondo che si prepara all’avvento della guerra finale tra divinità che ritroviamo la nostra coppia di eroi, ancora una volta al centro del destino del mondo. Nel nuovo lavoro del team californiano, al cui timone troviamo stavolta Eric Williams, è possibile assistere al processo di crescita e cambiamento che ha investito entrambi i personaggi, ancora una volta così diversi da quelli che avevamo imparato a conoscere nel corso del tempo. Kratos è soltanto una pallida ombra dello spietato Fantasma di Sparta, un individuo mosso unicamente dalla sete di vendetta e da una cieca violenza, in grado di abbattersi su chiunque osasse anche solo ostacolarne il cammino. Smessi in apparenza i panni del dio distruttore, il barbuto spartano è adesso un personaggio a tutto tondo, estremamente più sfaccettato e complesso di quello che i suoi esordi avrebbero mai potuto lasciar supporre. L’animo solitario e vendicativo che lo ha sempre contraddistinto, ha definitivamente lasciato il posto ad un’indole paterna e a suo modo affettuosa, che sotto la sua rude scorza da guerriero, cela uno sconfinato istinto di protezione nei confronti di Atreus. Un nuovo modo di affrontare la vita decisamente più corale ed aperto al prossimo, come dimostra il particolare rapporto di amicizia e stima che è riuscito ad imbastire (tra alti e bassi) con Mimir e, soprattutto, Freya: un piccolo gruppo di anime destinato ad espandersi tra le pieghe di questo epico racconto, che cambierà per sempre la nostra percezione nei confronti di questo eroe digitale.

E tale processo di crescita e mutamento non poteva certo risparmiare anche il giovane Atreus, che smessi i panni del ragazzino visto nel precedente God of War, è adesso un adolescente sicuramente più complesso e tormentato, sul cui sviluppo hanno pesato le rivelazioni degli Jotnar, che lo porteranno più volte ad interrogarsi in merito alla sua vera natura. Ed è all’ombra della consapevolezza di essere Loki che avranno origine i suoi moti di ribellione nei confronti del padre, scatenati da uno spregiudicato ed irrefrenabile desiderio di lottare per scongiurare il Ragnarok, in barba agli ammonimenti di Kratos. Costretto a vivere un saliscendi continuo di emozioni e situazioni, il giovane finirà spesso per rubare letteralmente la scena, viste le numerose digressioni che lo vedranno protagonista e che, oltre a permetterci di apprezzare maggiormente la sua rinnovata caratterizzazione psicologica, ci consentiranno anche di testarne l’abilità in combattimento, in questo ideale poema epico digitale in cui molti saranno chiamati a svolgere un ruolo non certo marginale. Sia narrativo che ludico. Un tassello dell’epopea partorita dallo studio californiano che, ne siamo sicuri, saprà emozionare e colpire con veemenza il giocatore, grazie a momenti di pura adrenalina a cui si accompagneranno situazioni più intime e delicate, segno evidente di quella maturazione a tutto tondo che ha investito il brand. Al punto che giunge assai spontaneo chiedersi cosa possa riservarci la sua prossima installazione.

 

L’arte della guerra

Se, come era lecito aspettarsi, il versante narrativo di God of War: Ragnarok rappresenta la fisiologica continuazione di quanto vissuto nel capitolo precedente, anche il fronte ludico della produzione Santa Monica può essere considerato come la naturale evoluzione dei cambiamenti visti nel 2018. Tutto parte da dove lo avevamo lasciato, a partire dal rinnovato combat system che andrà a scandire gli scontri che, seppur in parte “resettato” per ovvie esigenze di trama, ci srotolerà poco alla volta un complesso e corposo campionario di mosse in grado ampliare a dismisura il potenziale offensivo di Kratos ed alleati. Già, perché sarebbe impensabile pensare di affrontare il Ragnarok da soli, risolvendo tutto alla vecchia, spartana, maniera. Ecco, quindi, che il nostro Dio della Guerra lascerà di tanto in tanto la scena ad altri, primo fra tutti Atreus, ognuno dotato del proprio bravo skill tree e del proprio set di combo ed abilità, sebbene presenti in forma logicamente ridotta rispetto al title owner della produzione. Il lavoro svolto, in tale direzione, da Eric Williams e compagni, è risultato davvero eccellente, soprattutto perché è riuscito a rendere credibili questi momenti e queste meccaniche, di modo da non farle assomigliare a mere reskin in tono minore della potenza bellica di Kratos. Ovvio, però, come la scena delle potenzialità e delle personalizzazioni sia occupata interamente dal nostro spartano di fiducia, grazie al boost assai significativo di cui ha beneficiato l’esile, ai tempi, comparto simil ruolistico del predecessore. Che si parli del Leviatano o delle Lame del Caos, oppure dei vari pezzi di armatura e degli altri elementi accessori, in grado di fornire sia skill passive che attive, ci troviamo al cospetto di un segmento adesso molto più libero ed aperto, in grado di garantire un ventaglio di possibilità sicuramente più variegato. Le opzioni presenti, sia in termini di varietà di oggetti che di semplici perk ottenibili, apre la porta ad un concetto di build, assolutamente assente nel God of War precedente, tale da permettere a ciascun giocatore di rendere Kratos più efficiente nel campo (o nei campi) che maggiormente si addicono al proprio stile di gioco. Un ulteriore punto a favore di tale aspetto, inoltre, ci viene dal modo intelligente con cui Santa Monica ha scelto di centellinare le varie opzioni, diluendo in modo efficace la loro comparsa lungo tutto il corso della corposa avventura, in modo da rendere l’incedere sempre all’insegna dello stupore e della scoperta.

Tutto è calato all’interno di un mondo ricco e denso di attività e segreti da scovare, siano semplicemente forzieri o collezionabili da rinvenire, che missioni secondarie. Se sui primi si può sorvolare, sottolineando semplicemente come il team si sia superato in quanto a varietà, una menzione particolare la meritano le quest accessorie, assai più complesse ed articolate di quanto ricordassimo, e capaci di abbinare al puro divertissement delle vere e proprie storie autoconclusive, libere di ampliare la lore del titolo, oltre che di fornirci un punto di vista più diretto e approfondito in merito ad alcuni personaggi. Anche in questo caso, Santa Monica ha deciso di non soverchiare in modo brusco il player con una mole ingente di indicatori ed attività, ma ha preferito aprire poco a poco il mondo di gioco, abbinando al completamento delle varie quest principali, sicuramente più blindate in termini di pura progressione, il graduale sblocco delle varie macroaree in cui sono suddivisi i Nove Regni. E ci sarebbe molto altro da dire sulle attività ludiche che caratterizzano God of War: Ragnarok, capaci di lasciare spazio, all’interno di vari macro hub, anche ad una serie di enigmi mai del tutto banali, che ci chiederanno spesso di affidarci alle abilità uniche dei compagni che, di tanto in tanto, accompagneranno la nostra avanzata. E poi ci sono scontri opzionali, capaci di far rimpiangere le care, vecchie Valchirie, tane di Draugr da purificare e molto altro ancora, un vero e proprio florilegio di opzioni ludiche in grado di far lievitare a dismisura il già corposo monte ore necessario a portare a termine l’avventura, che si attesta sul ragguardevole traguardo delle circa 30 ore (morte più, morte meno).

 

Vorrei ma non posso

Quando annunciarono per la prima volta God of War: Ragnarok, per mezzo di quel logo a cui accennavo in apertura di recensione, vivevamo ancora un periodo di incertezza per quanto riguarda il destino delle prossime esclusive PlayStation. Dopo le fallaci rassicurazioni di colui che spergiurava di “credere nelle generazioni”, difatti, si erano susseguite una serie di docce fredde che avevano finito per smentire brutalmente tale assunto, ed il sentore che un tale destino avrebbe potuto abbattersi anche su Kratos e compagnia era forte. Soprattutto alla luce del silenzio con cui lo stesso Cory Barlog si era premurato di (non) rispondere ai Tweet di chi chiedeva lumi. Compreso il mio. Come da copione, pertanto, alla fine God of War: Ragnarok finì per gettare la maschera, solo per andare ad inserirsi anche lui beffardo all’interno della fitta schiera di produzioni first party crossgen, con conseguente rammarico di chi, come me, sperava di vedere la fura dello spartano brillare in modo quanto mai convincente solo su PS5. Perché è innegabile, a meno di non giocare su tubo catodico anni ’70, deficitarie di qualche diottria o, peggio ancora, essere inguaribili fanboy, come il comparto tecnico di questo Ragnarok non possa fare a meno di tradire il suo evidentissimo retaggio PS4. Se è pur vero che il team di sviluppo è riuscito a maschera, almeno in apparenza, tali limiti in virtù di una direzione artistica fuori parametro, ad uno sguardo attento non possono sfuggire geometrie e texture non sempre degne di un titolo current gen. Tutto è estremamente dettagliato e ricco di particolari che difficilmente è possibile rinvenire in produzioni analoghe, ma questo alone di risultato finale castrato è davvero difficile da scacciare, e spiace ancor di più se anche solo lasciamo correre la fantasia e pensiamo, per un fugace istante, a cosa avrebbe potuto essere il gioco se sviluppato con in mente solo l’ultima nata di casa Sony. Sia chiaro che questo non vuole certo rappresentare una bocciatura per l’estetica generale, anche perché pur al netto di tutto ci troviamo al cospetto di un prodotto sontuoso come pochi, solo che dalla casa giapponese ci aspettiamo ancora, a ben due anni di distanza dal debutto di PS5, il classico colpo da 90, capace di rendere giustizia all’esborso richiesto in origine.

Naturalmente, come oramai vuole la tradizione, anche God of War: Ragnarok propone due differenti modalità grafiche, capaci di prediligere la qualità o le prestazioni: personalmente, vista anche la tipologia di gioco, consiglio caldamente la seconda opzione, capace di garantire la fluidità adeguata alla mattanza norrena. Il piccolo boost grafico garantito dal primo setting, difatti, non può assolutamente compensare i 30 instabili frame al secondo che lo accompagnano. A non risentire della duplice natura generazionale è il comparto attoriale del titolo Santa Monica, che può contare su delle performance assolutamente strepitose, capaci di bucare letteralmente lo schermo per intensità e qualità, il tutto in virtù anche di un doppiaggio nostrano di pregevolissima fattura che, pur non raggiungendo le vette dell’espressione originale, riesce a risultare credibile e calzante in ogni sua sfumatura. Così come poco c’è da muovere alle partiture composte da Bear McCreary, ancora una volta perfettamente a suo agio con i toni e le atmosfere norrene, e che sono risultate epiche e puntuali al punto giusto. E che il compositore statunitense si senta quasi a casa tra Midgard e dintorni, lo dimostra anche il simpatico cameo che lo vede protagonista proprio nelle battute iniziali del gioco. A latitare, probabilmente sempre per questo dover scendere a compromessi con hardware così differenti tra loro, è il supporto esaustivo alle feature del DualSense, capace di restituire un buonissimo feeling per ciò che concerne il feedback aptico, ma che finisc per latitare colpevolmente in merito ai trigger adattivi. Vabbè, ce ne faremo una ragione.

Il Kratos definitivo? So che sbilanciarsi potrebbe risultare quanto mai ardito e, per certi aspetti, controproducente, ma dopo aver portato a termine l’epica impresa orchestrata da Santa Monica, sono pronto a correre ogni rischio e a prendere una netta posizione. Ovviamente più che favorevole nei confronti del nostro spartano di fiducia. God of War: Ragnarok, difatti, può essere considerato senza ombra di dubbio come il punto più alto raggiunto dalla serie, complice un equilibrio ed una maturità invidiabili, oltre che impensabili se lasciamo correre la mente agli esordi, sicuramente più spensierati (ludicamente parlando) del brand. Kratos è cambiato e si è evoluto, e noi con lui, ed è giusto tributare al nostro Dio della Guerra il dovuto plauso per essere riuscito ad accompagnarci con efficacia lungo questo tortuoso sentiero di cambiamenti. Rinnovarsi ulteriormente, dopo il clamoroso restyling subito nel 2018, sarebbe stato arduo e rischioso, per questo Eric Williams ed il team hanno visto bene di limitarsi (e ti pare comunque poco) a limare e rifinire ulteriormente il nuovo corso inaugurato da Cory Barlog, restituendoci un gioco che riesce a migliorare ed ampliare ciò che aveva reso imperdibile il suo predecessore. Il risultato è un titolo sicuramente imperdibile per tutti i possessori di una console Sony, ma anche per coloro che, più banalmente, amano i bei giochi. Per tutti gli altri c’è un catalogo sconfinato di produzioni a cui attingere.