Recensione Fallout 76
di: Simone CantiniIl suo teschio è una bandiera, che vuole dire libertà, così recitava la celeberrima sigla di un popolarissimo anime degli anni ’70 (se non lo avete riconosciuto sloggatevi e punitevi!), un vero e proprio slogan che, spogliato delle bianche ossa craniali e sostituito con una più calzante armatura atomica, si potrebbe benissimo affiancare alla saga di Fallout. O almeno a ciò che essa rappresentava fino all’avvento del quarto episodio. A partire da questa incarnazione, nonostante una mutazione iniziata con l’iterazione precedente, la serie Bethesda aveva iniziato a spostare il suo focus dal ruolismo duro e puro, abbracciando meccaniche più generiche e non proprio affini alle origini. Ed oggi, quasi come se fosse stata esposta ad una dose massiccia di quelle radiazioni a lei tanto care, ha finito per compiere il cambiamento più epocale, abbracciando quell’online che è alla base dell’esperienza di Fallout 76.
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C’è vita sulla Terra, forse
L’inizio di Fallout 76 è un qualcosa di veramente atipico per il franchise, che da sempre ci ha abituato a risvegliarci immersi nella più completa desolazione postatomica. Stavolta però le cose cambiano in maniera sostanziale, dato che da abitanti del Vault 76 ci ritroviamo in un ambiente ancora intatto, primo degli ultimi baluardi eretti dalla razza umana per ripopolare il pianeta devastato dalla guerra nucleare. Sarà per certi versi straniante, difatti, aggirarsi per i corridoi del rifugio durante il tutorial, solo per accorgersi di come tutto (per quanto deserto) non porti i segni della distruzione che nel tempo abbiamo imparato a conoscere in questa bizzarra riproposizione di un ipotetico futuro. Così come lascerà di stucco abbandonare quelle metalliche pareti, per riemergere in un mondo molto più vivo, biologicamente parlando, di quello che ci saremmo aspettati: l’Appalachia che ci troveremo a percorrere in lungo e in largo, difatti, propone un paesaggio in cui la natura pare avere ripreso possesso del pianeta, non disdegnando distese erbose e fitte boscaglie, andando così a rendere più colorata e viva la palette cromatica a cui eravamo abituati. È a questo punto, però, che una delle dissonanze più macroscopiche di Fallout 76 inizia a fare capolino: il mondo di gioco è completamente disabitato, se si escludono gli ostili mutanti e la rinnovata fauna. Una volta iniziata la missione che ci porterà a cercare i nostri vecchi compagni di prigionia forzata, non troveremo nessun NPC a darci il benvenuto, oppure ad assegnarci missioni o quanto altro. La narrativa di Fallout 76, difatti, procede unicamente per mezzo di olonastri e terminali, con qualche sparuto robot a fornirci una manciata di dettagli. Questa scelta, sebbene riesca a veicolare tutto sommato bene le informazioni necessarie, da un lato segna il definitivo abbandono del sistema morale che già aveva subito un brutale scossone in Fallout 4: così un primo tassello di quella libertà (quasi) da sempre garantita di cui parlavo nell’incipit, finisce bruscamente per venire meno. E questa impossibilità di poter tornare ad essere padroni della nostra personalità digitale ci viene rimarcata in modo ancora più netto dal sistema di crescita del personaggio, che per quanto ci consenta di volta in volta di scegliere quale aspetto migliorare, a causa della particolare gestione dei talenti ha finito per venire investito da un’abbondante dose di casualità, non sempre disposta ad assecondare il nostro volere.
Né carne, né pesce
Crescere, in Fallout 76, significa come sempre andare ad incrementare uno dei valori S.P.E.C.I.A.L., ognuno dei quali è legato a doppio filo a peculiari dinamiche di gameplay, rese possibili dal cospicuo ventaglio di abilità accessorie tra le quali si poteva scegliere ad ogni passaggio di livello. In Fallout 76, per quanto permanga la prima parte di questo meccanismo, la gestione dei vari perk è legata all’utilizzo di alcune particolari carte, distribuite in forma casuale all’interno di pacchetti. Il sistema, per un amante dei GDR come il sottoscritto, avrebbe anche un certo fascino, ma ai fini più pratici rende davvero difficile pianificare in modo puntuale il percorso del nostro personaggio, visto che non sapremo mai se i bonus passivi che otterremo potranno davvero fare al caso nostro. Almeno è scongiurato il problema di eventuali doppioni, visto che perk identici possono essere combinati tra loro per dare vita a carte più potenti. Alla luce di questi fatti, dunque, è evidente come gli elementi ruolistici che si porta in dote Fallout 76 finiscano per divenire una pallida ombra di quello che sin dagli albori è stato uno dei capisaldi dell’intero franchise, elemento che se da un lato potrebbe venire incontro a chi cerca un’esperienza più abbordabile, dall’altro finirà per scontentare la fanbase storica, ma si tratta di una scelta che oramai sembra essere stata fortemente voluta da Bethesda, come testimoniato ampiamente dal controverso quarto episodio. Questa penultima incarnazione, inoltre, riporta in auge uno degli elementi che meno avevo apprezzato tra tutte le new entry, ovvero le meccaniche di building, che ritroviamo adesso veicolate all’interno del C.A.M.P., ovvero il nostro particolare punto di ristoro mobile. Questo apparecchio, in cambio di una manciata di tappi, ci permetterà di volta in volta di edificare un avamposto, che potremo personalizzare in ogni sua forma, a patto di avere i materiali necessari. L’utilità del C.A.M.P. è comunque innegabile, visto che qua potremo allestire alla bisogna i banconi tramite i quali riparare e creare oggetti, oltre che approntare un focolare dove cuocere i cibi che serviranno per il nostro sostentamento. Da New Vegas, difatti, ritorna la gestione della fame e della sete, stavolta non più opzionale, che ci costringerà a dover setacciare in lungo e in largo la mappa di gioco in cerca di provviste, pena il decremento delle nostre prestazioni. Mangiare cibo avariato o contaminato, oppure esporsi a dosi massicce di radiazioni, potrebbe però avere anche piacevoli effetti collaterali, introdotti per mezzo delle mutazioni: queste potranno sia conferirci dei malus, ma anche imprevedibili bonus in grado di modificare le nostre capacità. L’idea è veramente carina e pur andando ad aumentare l’elemento aleatorio dell’infrastruttura ludica, ben si adatta al mood e allo spirito del gioco.
Cilecca!
Se è evidente come dei vecchi Fallout sia rimasto ben poco, il colpo più brusco assestato all’ingombrante passato della serie arriva dal sistema di combattimento, invero quello che sembra aver più di tutti patito l’esposizione alle polveri radioattive. Il passaggio dai turni dei primi due capitoli al sistema misto di Fallout 3 era stato, tutto sommato, quasi indolore, lasciando sempre al giocatore la possibilità di scegliere l’approccio a lui più congeniale. Stavolta, però, sempre per continuare l’opera di svecchiamento iniziata nel 2015, le cose sono state completamente stravolte, abbandonando la gestione più compassata dello S.P.A.V. in favore di un sistema che non prevede né pause né rallentamenti dell’azione (dopotutto siamo online). Scegliere la visuale tattica servirà unicamente a consentirci di utilizzare una sorta di mira assistita, fermo restando che il successo dei colpi dipenderà sempre da varie statistiche. Qualunque sia l’approccio ci troveremo, a conti fatti, a gestire un rozzo FPS/TPS (a seconda della visuale che sceglieremo), caratterizzato da un pessimo gunplay, una fisica delle armi discutibile ed una telecamera incapace di seguire a dovere l’azione. A complicare le cose ci pensa anche una gestione delle collisioni completamente sballata, che in più di un’occasione ci vedrà incastrarci in ostacoli apparentemente insignificanti, ma che ci lasceranno inesorabilmente in balia dei colpi nemici. Della possibilità di combattere corpo a corpo, invece, preferisco non parlarne per decenza. Vabé, ma in fondo quel che conta in un Fallout che si rispetti sono le missioni, sempre ben scritte ed intriganti: bene, se è vero che il primo elemento sia tutto sommato presente, rappresentato da diari e messaggi in grado di rendere palpabile l’atmosfera che si respira in Appalachia, il secondo fattore si perde nel mare di quest che ci vedranno rimbalzare da un punto all’altro della mappa, limitandosi a richiederci un particolare oggetto o l’uccisione di qualche creatura. Insomma, ottima traccia ma sviluppata maluccio.
Chi non gioca in compagnia, gioca lo stesso
E siamo infine giunti a parlare di quello che, piaccia o no, rappresenta il maggior punto di rottura con il passato introdotto da Fallout 76, ovvero quell’online capace di far imbestialire sin dal primo annuncio la platea dei fan (c’ero anche io, lo ammetto). Ebbene, confesso che questa particolare feature, dopo aver trascorso svariate ore in compagnia del titolo, ha finito per risultare la meno invasiva e fastidiosa del lotto, andando semplicemente ad ampliare il parco di cose da fare. Ci tengo a dire subito che, al netto di qualche picco di difficoltà random, la campagna di Fallout 76 è tranquillamente godibile in solitaria, così come lo spropositato numero di missioni secondarie. Giocare assieme agli altri umani che di tanto in tanto incontreremo nell’area di gioco, quindi, servirà unicamente a chi sceglierà deliberatamente di affrontare l’Appalachia in compagnia, oltre che a portare a termine gli eventi a tempo (in perfetto stile Destiny), che di tanto in tanto compariranno in alcune zone della mappa. Tutto appare, quindi, all’insegna del PvE, ma Bethesda ha pensato anche di introdurre una blanda modalità competitiva, che permetterà a due squadre composte da quattro sopravvissuti di lottare tra loro. Attaccando invece in solitaria un avversario, e venendo “contraccambiati”, ecco che in caso di successo diverremo fuorilegge, con tanto di taglia sulla testa. L’idea è tutto sommato carina, ma se analizzata nel dettaglio anche decisamente superflua, vista l’influenza nulla che ha sul gioco: cacciare o essere cacciati, difatti, si tradurrà semplicemente in una piccola perdita di tappi (e talvolta di tempo). Ovviamente, laddove c’è online, non potevano mancare le mai troppo lodate microtransazioni, fortunatamente limitate ai soli oggetti estetici.
Sangue dagli occhi
Quando ho letto che il prossimo Elder Scroll si baserà su di una versione potenziata del Creation Engine, non nego di aver provato pietà per tutti i fan dell’altra saga ruolistica Bethesda. E dopo aver provato Fallout 76 la mia solidarietà non può fare altro che aumentare, visto lo squallore tecnico che questo vetusto motore di gioco si porta ancora oggi appresso. Sì, perché tecnicamente parlando l’ultimo lavoro del colosso statunitense è semplicemente disastroso, a causa di un comparto grafico semplicemente improponibile a fine 2018, a cui si accompagna la consueta accozzaglia dei più assurdi bug. Inoltre, vedere come una grafica tanto dimessa riesca a toccare un frame rate così imbarazzante, che tra freeze e scatti vi terranno compagnia come il più fedele dei compagni, è oggi semplicemente inconcepibile. Evito di esprimermi in merito alle animazioni legnose dei vari personaggi, che molto spesso vedremo anche semplicemente pattinare immobili verso di noi. E poi non mancano compenetrazioni assurde, un ragdoll risibile in varie circostanze e problemi legati alla scomparsa degli obiettivi missione. Il tutto nonostante ad una settimana dal lancio il gioco abbia visto l’uscita di due patch da 50 gigabyte l’una, un fatto davvero vergognoso, tanto più per chi ha optato per la versione digitale del titolo, che già di suo pesa altrettanto: va bene essere sempre più beta tester, ma a tutto c’è un limite. Meno male che a risollevare il tutto ci pensa l’ottimo comparto audio, sempre caratterizzato dalle classiche e stranianti musiche anni ’50 e da un doppiaggio in italiano di ottima fattura. E sulla localizzazione mi trovo, ancora una volta, a togliermi il cappello al cospetto della volontà di Bethesda di rendere il tutto fruibile a chiunque non mastichi l’inglese. Ottima, pur al netto della tecnica discutibile, la direzione artistica generale, da sempre un must della serie.
Fallout 76 prende definitivamente le distanze da quelle che sono le origini più radicate della serie, trasformando il tutto in un ibrido molto più abbordabile e blando, di sicuro più adatto alle nuove leve che ai veterani del franchise. E lo fa avventurandosi nel pericoloso mondo delle esperienze online only, anche se in questo caso il modo in cui vi si applica è quanto mai superficiale, rendendo l’interazione tra giocatori più un elemento opzionale che il cardine portante dell’esperienza. Le cose da fare restano comunque tantissime, anche se diluite all’interno di un gameplay che sceglie di essere un po’ troppe cose tutte assieme, senza eccellere particolarmente in nessun aspetto. L’ossatura ludica rimane comunque interessante, ma assume anche i contorni di un potenziale, allo stato attuale delle cose, malamente sprecato. Speriamo che i preventivati aggiornamenti futuri riescano a rinvigorire sensibilmente un’offerta un po’ anonima, oltre che a tentare di mettere più di una pezza al disastroso comparto tecnico. Todd Howard ha detto che i server di Fallout 76 rimarranno accesi per sempre, ma questo punto resta da vedere se faranno altrettanto i giocatori.