Recensione Bedlam
I tie-in, adattamenti videoludici di popolari blockbuster cinematografici, sono quasi una fastidiosa (vista la qualità spesso infima degli stessi) costante del mondo dei videogames. Come non ricordare immortali capolavori digitali del calibro di E.T., capaci di rallegrare anche i deserti più remoti, oppure il più recente Rambo, in grado di far rimpiangere il peggior Stallone? Meno popolari, invece, sono le trasposizioni videoludiche di opere cartacee di cuiBedlam è l’ultimo, bizzarro, esponente.
di: Simone CantiniI tie-in, adattamenti videoludici di popolari blockbuster cinematografici, sono quasi una fastidiosa (vista la qualità spesso infima degli stessi) costante del mondo dei videogames. Come non ricordare immortali capolavori digitali del calibro di E.T., capaci di rallegrare anche i deserti più remoti, oppure il più recente Rambo, in grado di far rimpiangere il peggior Stallone? Meno popolari, invece, sono le trasposizioni videoludiche di opere cartacee di cui Bedlam è l’ultimo, bizzarro, esponente.
Cogito ergo sum
Tratto dall’omonimo romanzo dello scrittore britannico Christopher Brookmyre, Bedlam ci catapulterà in una serie di mondi virtuali, ispirati ai più celebri videogiochi di sempre. Nei panni distorti di Heater Quinn ci troveremo invischiati in un folle gioco che ci sbalzerà attraverso numerose ambientazioni, modellate attorno a classici del calibro di Halo, Call of Duty, Space Invaders, Pac Man e molti altri, in un folle gioco di specchi in cui saremo portati ad interrogarci in merito all’effettiva consistenza della nostra realtà: in pieno stile Matrix (il primo, quello sano), la nostra protagonista si interrogherà sul suo essere o meno reale, sino alle ultime fasi di gioco in cui tutto sarà finalmente svelato. L’essere tratto da un’opera prodotta da uno scrittore di fama mondiale si avverte sin da subito, grazie ad una trama e a dei dialoghi estremamente ben congeniati, capaci di fungere da perfetto collante ai vari e repentini sbalzi a cui ci sottopone il gioco. Evidente è anche la passione per il mondo dell’entertainment videoludico che anima il team responsabile della produzione che, tra citazioni più o meno esplicite, ci propone un affresco di quelle che sono alcune delle tappe fondamentali dell’evoluzione del media.
Imperfezione voluta?
La struttura base di Bedlam è quella del più canonico dei FPS, grazie anche alle ambientazioni in cui ci troveremo a muovere: passeremo dalle futuristiche atmosfere di Starfire, un fittizio shooter online persistente, a quelle più canoniche di Path of Glory, palese clone dei primi Call of Duty, passando per sezioni fantasy, emuli del mangia palline giallo più famoso del pianeta, bizzarre operazioni di giardinaggio in salsa aliena e shoot’em up a scorrimento orizzontale dei primi anni ’80. Il citazionismo sfrenato di Bedlam e le marginali, per quanto piacevoli, variazioni di genere, sono senza dubbio il punto di forza dell’intera produzione, seppur ogni mutamento resti fortemente ancorato alle meccaniche shooter di base. Queste sono tarate sulle produzioni degli anni ’90, come citato anche direttamente dalla stessa Heater, pertanto si portano dietro tutti i pregi e i difetti storici dei lavori del periodo: movimenti rapidissimi e poco precisi, armi in quantità spropositata, animazioni raffazzonate e level design caotico. Quest’ultimo, complice l’assenza di una qualsiasi mappa in-game, rappresenta forse la maggiore criticità di Bedlam: non sono stati pochi, difatti, i momenti in cui mi sono ritrovato a vagare per le varie aree di gioco che, a causa di una povera caratterizzazione, rendono difficoltosa la comprensione della strada da seguire. C’è comunque da dire che tutto questo assurdo mix di situazioni ed ambientazioni così profondamente differenti tra loro, almeno sulla carta, aveva tutto il potenziale per funzionare. Purtroppo le ottime idee si scontrano con una realizzazione globale non certo brillantissima che, tra glitch vari, incomprensibili scelte di design (perché scalare una montagnetta completamente al buio?) e una pessima implementazione dei controlli minano profondamente il divertimento complessivo. A complicare il tutto intervengono anche le ultime sezioni di gioco che, dimostrando uno scarso bilanciamento dell’esperienza, sfilacciano ulteriormente la coesione generale, annacquando una longevità che se fosse stata più concentrata rispetto alle 6-7 ore richieste per arrivare in fondo non avrebbe rappresentato certo un peccato mortale.
Volutamente retrò
Impossibile aspettarsi l’impossibile da un team indipendente che, per forza di cose, non può ambire a competere con i grossi studi. E laddove non si può arrivare con il vil denaro conviene sempre utilizzare l’ingegno e la fantasia: ed è proprio alla luce di queste due ultime qualità, condite con un pizzico di intelligenza (che non guasta mai), che si deve premiare l’aspetto grafico di Bedlam. Consci di non poter riprodurre scenari fotorealistici, oltre che per esigenze di trama, il team ha puntato tutto su ambienti volutamente retrò, ironizzando a sua volta sull’arretratezza grafica dei giochi in cui ci aggireremo nel corso del gioco: di certo l’aspetto di uno shooter di metà anni ’90 non può competere con l’Halo dei giorni nostri. Una volta tanto, quindi, la riproposizione di uno stile grafico volutamente vecchio si è rivelato funzionale alla trama e non un mero limite tecnico, mascherato da aulico citazionismo storico.
Peccato. Sì, è un peccato che tutte le folli ambizioni alla base di Bedlam non abbiano trovato la giusta corrispondenza nella cura realizzativa dei ragazzi di RedBedlam. L’idea di base, complice il lavoro di Brookmyre, è senza dubbio lodevole ed avrebbe meritato una miglior sorte. Così come è giunto sugli scaffali digitali, Bedlam si è rivelato il classico titolo minato da un vorrei ma non posso che mal si sposa con quello che avrebbe potuto essere realmente.