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Recensione Arashi: Castles of Sin

di: Simone Cantini

Ah il Giappone feudale, periodo storico ricco di conflitti e sangue, terreno fertile per spietati signori della guerra, sempre pronti a soggiogare le genti e a fare strage dei propri rivali. Peccato, però, che costoro non hanno fatto i conti con Kenshiro, il protagonista di Arashi: Castles of Sin, un letale guerriero incaricato dalla propria famiglia di liberarsi di una serie di crudeli generali, responsabili dei più efferati massacri: pronti a calarvi letteralmente nei panni del nostro silenzioso shinobi, e a scendere in campo in compagnia della fedele Haru?

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Silenzioso ma letale

Titolo decisamente ambizioso questo Arashi: Castles of Sin, dato che la struttura ludica punta a presentare un insieme di livelli dalla struttura aperta, in grado di consentire al giocatore di sperimentare svariati approcci, capaci di variare in modo sensibile la progressione e l’esperienza. Ciascuno dei sei capitoli che compongono l’avventura, completabile nel giro di circa 4-5 ore, è suddiviso in varie sottosezioni, ognuna delle quali ci chiederà di raggiungere l’uscita, ovviamente cercando di non farci uccidere dalle truppe ostili presenti nella zona. Per riuscirci, come già detto, avremo a nostra disposizione un level design decisamente ben congeniato che, pur dovendo scendere a compromessi con le fisiologiche limitazioni dell’esperienza VR, è in grado di proporre una buona dose di percorsi sfruttabili, in grado di favorire sia un approccio diretto che uno più votato allo stealth. Oltre a ciò, il nostro Kenshiro potrà contare su di un arsenale di tutto rispetto, che oltre alla canonica katana (indispensabile durante gli scontri all’arma bianca), comprenderà una serie di altri strumenti di offesa, che tra frecce, bombe fumogene shuriken e molto altro, consentiranno di sbarazzarci dei nemici anche senza dare troppo nell’occhio. A completare il cerchio troviamo, inoltre, la letale Haru, un lupo che potremo utilizzare in qualsiasi momento, sia per distrarre il nemico di turno (magari per poi colpirlo alle spalle), sia per immobilizzare temporaneamente un guerriero avversario. Si tratta della declinazione VR del cane che abbiamo imparato ad amare e sfruttare nell’immortale Shadow Dancer di SEGA, e che torna oggi dotato di una rinnovata gamma di interazioni, oltre che di una presenza scenica molto più accattivante. Quello che ci troviamo tra le mani, in definitiva, è pertanto un’ampissima gamma di possibilità, che permette tanto di sfuggire agli occhi dei nemici passeggiando sui tetti, o magari nascondendosi nei cespugli, ma anche di essere molto più aggressivi e diretti, lasciando al giocatore la scelta. Le varie missioni, pertanto, scorrono via che è un piacere, anche se purtroppo non presentano incentivi alla ripetizione, dato che ad eccezione di una sparuta manciata di oggetti segreti da recuperare, non sono annoverati punteggi o statistiche in grado di premiare gli approcci più o meno virtuosi.

Morte sotto controllo

Un ottimo lavoro è stato svolto anche in fase di implementazione dei controlli di gioco, che si sono rivelati in grado di adattarsi alla perfezione alle limitate possibilità offerte dall’accoppiata di Move richiesti per giocare. Il movimento, demandato all’utilizzo del pulsante principale del controller sinistro, si è difatti rivelato estremamente fluido ed immediato, così come la gestione delle armi e dei gadget da lancio e degli scontri diretti. Questi ultimi rappresentano, forse, uno degli elementi più deboli della produzione, dato che ci richiederanno semplicemente di parare con il giusto tempismo i fendenti avversari, per contrattaccare rapidamente. Meno evidente in occasione dei confronti con più nemici, il meccanismo mette in mostra i suoi limiti durante gli scontri con i boss, invero alquanto blandi e non in grado di accompagnare a dovere l’eccellente character design che li contraddistingue. L’amalgama generale, comunque, al netto di questa criticità risulta davvero convincente, ed in grado di presentare un’esperienza assai varia e divertente, cosa non sempre scontata quando parliamo di produzioni VR.

 

Lavoro di cuore

È a livello puramente stilistico che Arashi: Castles of Sin mette in mostra l’amore che i ragazzi di Endeavor One hanno riversato nella loro produzione: tutto, a partire dal citato character design, passando per le bellissime cinematiche disegnate a mano che scandiscono i momenti narrativi, denotano una cura per il particolare davvero notevole, segno di un lavoro di ricerca sopraffino. Vera chicca, poi, è la presenza del doppiaggio in lingua giapponese, capace di conferire una marcia in più al fattore immedesimazione. Un po’ più spoglia, invece, la presentazione generale, con architetture non proprio indimenticabili, ma che comunque riescono a svolgere con efficacia il proprio lavoro. E poi c’è Haru, che nonostante soffra degli stessi difetti della Ellie del primo The Last of Us, almeno per quanto riguarda la rilevazione dei nemici, gode di una caratterizzazione davvero azzeccata, al punto che è davvero difficile non innamorarsene.

Arashi: Castle of Sin è la dimostrazione lampante di come anche i titoli VR possano proporre un gameplay sfaccettato ed appagante, capace di presentare (seppur in forma ridotta) il fascino delle esperienze canoniche. Grazie al suo saper proporre al giocatore una corposa varietà di approcci alle missioni, il titolo irisulta sempre affascinante ed imprevedibile, oltre che in grado di adattarsi alla perfezione all’hardware e alle periferiche che è chiamato a sfruttare. Se i meccanismi stealth risultano estremamente efficaci e ben implementati, è sul fronte degli scontri ravvicinati che il titolo scivola un poco, presentando un combat system sin troppo elementare e sintetico, soprattutto se confrontato con le possibilità che premiano gli approcci silenziosi. Il gioco, comunque, risulta estremamente godibile nel suo complesso, anche se l’assenza di particolari stimoli in grado incentivare la ripetizione delle missioni rimane davvero un peccato.