Comic Recensione

Barrier

di: Simone Cantini

Nella nostra quotidianità, quando ci troviamo a relazionarci con le persone che fanno parte da tempo della nostra vita, c’è un elemento che la maggior parte di noi darà sicuramente per scontato, ma che poi non lo è così tanto: la nostra lingua. Un aspetto a cui non pensiamo, che sfruttiamo in maniera automatica per comunicare ed interagire, senza riflettere sull’importanza e l’unicità che per ciascuno di noi. Un’identità che, se perduta, può portare a equivoci, errori di espressione (quanto mi piace Lost in Translation di Sofia Coppola!) che tendono a renderci soli, ad isolarci dal resto. Eppure si può andare oltre questa barriera invisibile e riuscire a costruire un ponte ideale in grado di far superare ogni difficoltà, come ci insegnano gli eventi straordinari alla base di Barrier, il fumetto di Brian K. Vaughan, Marcos Martín e Muntsa Vicente edito da BAO.

Uniti nel dolore

In Barrier, Brian K. Vaughan, insieme a Marcos Martín e Muntsa Vicente, ci porta in un Texas di confine dove Liddy, una donna segnata dalla durezza della frontiera, e Oscar, un giovane honduregno in fuga, si ritrovano catapultati in una vicenda che mescola realismo sociale e fantascienza. Entrambi con alle spalle una storia a base di lutti e soprusi, per quanto lontani socialmente e geograficamente, i due involontari protagonisti del racconto sono separati anche dalla barriera linguistica, che renderà alquanto impossibile comunicare durante il loro primo, sfortunato incontro.

È da questo momento in poi che il focus della sceneggiatura imbastita da Vaughan cambia registro, spostando il focus dalla banale (per quanto drammatica) realtà del quotidiano all’interno dei confini dello sci-fi più puro: rapiti da una astronave alinea in odor di Guerra dei Mondi, i due dovranno superare le barriere individuali che li separano, per cercare di fare ritorno sul pianeta Terra. Una storia complessa e decisamente matura, capace di mettere ancora una volta in mostra il talento di Vaughan, che si prende tutto il tempo necessario in avvio per introdurre i due protagonisti, ma che scivola via forse in maniera un po’ troppo affrettata nelle battute finali. Confesso che avrei preferito una conclusione un pizzico più articolata, ma a dispetto della mia personalissima delusione il livello qualitativo si mantiene sempre su livelli decisamente elevati.

L’unione fa la forza

A colpire in primis nella stesura di Barrier, anche per tenere saldamente fede al proprio titolo, è la scelta di non tradurre in italiano (ovviamente in inglese nella versione originale) i dialoghi di Oscar e dei suoi compatrioti, una scelta che si è rivelata vincente e dannatamente immersiva. Si tratta di una precisa scelta autoriale, confermata nelle note dallo stesso Vaughan, così da rendere tangibile e reale le difficoltà di comunicazione che le differenze linguistiche prevedono. E che funziona alla perfezione man mano che si scorrono le pagine di questa particolare graphic novel.

Si tratta di un pretesto narrativo utile anche a tracciare i confini di una denuncia sociale, che mette alla berlina la situazione degli immigrati statunitensi che, pur rimanendo sullo sfondo del racconto, non può mancare di colpire chiunque abbia voglia di leggere tra le righe. Finchè tutto non ritorna al concetto di partenza, quelle barriere apparentemente insormontabili che però, qualora vi sia la volontà comune di remare nella stessa direzione, sono in grado di unire le persone. Anche in situazioni di assoluta disperazione.

Lo stile grafico di Barrier è un esperimento visivo audace e immersivo, che sfrutta il formato orizzontale e una palette cromatica vibrante per amplificare il senso di spaesamento e incomunicabilità. Marcos Martín gioca con la disposizione delle vignette, alternando sequenze serrate e claustrofobiche a splash page ampie e contemplative. Questo ritmo visivo riflette la tensione tra chiusura e apertura, tra barriera e possibilità di superarla. I colori di Muntsa Vicente sono saturi, intensi, spesso contrastanti. La palette cromatica diventa linguaggio emotivo: i toni caldi del Texas, i colori cupi e sporchi dell’Honduras, le esplosioni psichedeliche delle sequenze fantascientifiche. Il colore non è decorativo, ma narrativo: amplifica il senso di alienazione e di collisione tra mondi.

Barrier è un’opera che riesce a fondere con grande efficacia realismo sociale e fantascienza, trasformando la barriera linguistica e culturale in un’esperienza tangibile per il lettore. La scelta di non tradurre i dialoghi, unita al formato orizzontale e all’uso sapiente dei colori, rende la lettura immersiva e spiazzante, costringendo a confrontarsi con la difficoltà della comunicazione e con il senso di alienazione che ne deriva. Pur con qualche passaggio finale forse troppo rapido, la graphic novel di Vaughan, Martín e Vicente rimane un esperimento narrativo e visivo di grande forza, capace di parlare tanto del presente quanto di un futuro immaginato. Barrier non è solo un fumetto, ma un invito a riflettere su ciò che ci divide e su ciò che, nonostante tutto, può ancora unirci.