The Place
di: ZamveleVivo in una piccola cittadina di provincia, più o meno sul modello di quella con due discoteche e centosei farmacie degli 883. In particolare, qua ci sta un unico cinema, con un paio di sale, e una programmazione quanto meno rapsodica. Eppure, guardare quanta gente stia in sala è, per me, un buon modo per tastare quanto un film sia atteso. Per The Place, nuovo film di Paolo Genovese, la sala era colma come non accadeva dalle domeniche pomeriggio natalizie di inizio anni 2000. Il che è comprensibile, considerando il grande successo di Perfetti Sconosciuti, che era riuscito a interessare anche gente che normalmente si tiene lontana dal tipico film da salotto italiano (anche comprensibilmente).
The Place porta a un livello ancora superiore la staticità dell’ambientazione di Perfetti Sconosciuti: tutto il film, infatti, si svolge non solo in un luogo, la tavola calda The Place, ma addirittura in un unico tavolino, quello a cui lavora e vive Valerio Mastandrea. Qua, il suo personaggio, di cui non consociamo il nome, riceve, giorno dopo giorno, una serie di persone che gli chiedono i più disparati favori: si va dal far guarire il figlio malato al diventare più bella, in cambio di una qualche azione, per lo più atroce, come per esempio stuprare una donna. Insomma, non è che Genovese vada molto per il sottile nella metafora del “quanto sei disposto a spingerti oltre per ottenere quello che vuoi?”
Proprio per questa sua struttura, The Place è un film che si regge principalmente sulla scrittura e sulla bravura dei suoi attori. La regia di Genovese, priva di virtuosismi, è pacata e tende a mettere al centro i dialoghi. The Place, nonostante la sua staticità, non risulta mai noioso o pesante. Prima di tutto, grazie ai numerosi attori in stato di grazia, perfettamente in grado di sostenere il racconto corale che Genovese gli affida. Ci sta un Papaleo sempre più dismesso, un Borghi cieco che finalmente non deve andare in overacting pesante per tutto il film, una Rohrwacher nel ruolo di suora che è semplicemente perfetta, e così via, Giallini, Marchioni, Puccini, Ferilli, non c’è un attore fuori posto. Su tutti, vuoi per il minutaggio, vuoi per la totale naturalezza con cui lo impersona, svetta Mastandrea. Ma sinceramente, quello che m’ha scaldato il cuore è stato rivedere Silvio Muccino al cinema, di cui ho perso i primi dialoghi per ripetermi le battute di Che ne sarà di noi.
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The Place è un racconto corale, per carità, è vero, ma l’empatia dello spettatore, la sua identificazione viene indirizzata maggiormente verso il personaggio mefistofelico di Mastandrea. E’ lui che è presente nella quasi totalità delle inquadrature. E’ con lui che ascoltiamo e reagiamo alle storie degli altri, anche con la sua stessa curiosità un po’ morbosa di vedere quanto sono disposti a fare per ottenere quello che pensano li renderà felici. Ma non è solo passivo, Mastandrea: ogni tanto, interagendo con la cameriera della tavola calda – una sempre più materna e sensuale Ferilli -, abbiamo il controcanto, dove è Mastandrea, per una volta, a essere al centro dell’indagine. In tutto questo, la scrittura di Isabella Aguillar e Genovese è perfetta nel tenere sempre alta l’attenzione e la curiosità.
Il vero problema di The Place è la sua stessa base: i mostri che sono dentro di noi, come sottolinea pure Mastandrea. Il fatto è che nessun personaggio, alla fin fine, si rivela poi veramente così mostruoso. Al massimo sgradevole. Ma insomma, se la premessa era che per essere felici si è disposti a stuprare una donna, la sgradevolezza mi pare il minimo. Quello che intendo dire è che nessuno in The Place compie alla fine una qualche azione veramente mostruosa per avere ciò che vuole. Le cose brutte accadono, è vero, ma ci sta comunque pentimento o castigo. Tutto appare, quindi, virato come un racconto piuttosto conciliante sulla natura umana, o, peggio, sul fatto che comunque alla fine si ha quello che si vuole anche senza fare roba brutta. Però, mi rendo conto di star chiedendo a The Place una gravitas che probabilmente nemmeno ha mai avuto intenzione di avere, e che si addirebbe meglio anziché a un film di Paolo Genovese a uno di Tarkovskij. Però sempre con Mastandrea, eh. E soprattutto Muccino.