Cinema Recensione

L’isola dei cani – Il cinema che fa sognare

di: Simone "PulpGuy88" Bravi

Di cosa sono fatti i sogni?

Beh, domanda complicata. Se proprio dovessimo dare una risposta, vi diremmo che sono fatti della stessa materia dei film di Wes Anderson. Perchè a confezionare un buon prodotto cinematografico, oggi giorno, sono capaci un po’ tutti, budget permettendo. Ma immergere lo spettatore in un mondo immaginifico, ammaliarlo e farlo tornare bambino per un paio d’ore, col sorriso stampato in faccia e gli occhi spalancati davanti al bagliore dello schermo…Quello è tutto un altro paio di maniche.

Dopo Fantastic Mr. Fox, il nostro amato Wes torna alla complicata tecnica del “passo uno” (o “stop motion”) che, per i meno tecnici, consiste nell’impressionare un solo fotogramma alla volta per poi creare un’animazione fluida su schermo. E la storia è quella di Atari Kobayashi, un coraggioso ragazzino che si vede portare via il suo fedele amico a quattro zampe, deportato insieme al resto dei cani del paese su un’isola-discarica (per ordine dello zio, sindaco della città), poichè affetti da un infestante virus che minaccia l’intera popolazione. Atari, dirottando da solo un piccolo aereo, si precipita sull’isola alla ricerca di Spot, trovando inaspettatamente l’aiuto di un gruppo di meticci commossi dal suo spirito di sacrificio e dall’attaccamento dimostrato verso il suo cane.

Quella che ci viene presentata come una favola moderna, un film per tutta la famiglia capace di scaldare il cuore, è in realtà uno dei film più politici del regista texano. L’isola dei cani è una storia che si dipana su più livelli e lavora sottotraccia in diversi contesti che vanno dal sociale, all’ambientalista passando per la politica, il razzismo e la medicina. L’abilità di Wes Anderson è certamente quella di saper stemperare i toni della narrazione, evitando di rendere pesante (o addirittura pedante)la maturità dei temi trattati. L’umorismo irresistibile messo in scena dai suoi pupazzi animati vi conquisterà, grazie anche all’abilità del team di doppiatori, delle star d’eccezione del calibro di Bryan Cranston e gli immancabili feticci Bill Murray, F. Murray Abrham,  Edward Norton e Jeff Goldblum. Va detto infatti che, per godere appieno dell’esperienza offerta da L’isola dei cani, è consigliabile vedere il film in lingua originale (per quanto non abbiamo avuto modo di compararlo con la versione doppiata in italiano).

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Non serve invece un occhio chissà quanto esperto per scorgere i tantissimi omaggi che Anderson infila nella pellicola, da Quarto potere (la sequenza del discorso di Kobayashi con la sua gigantofrafia in bianco e nero alle spalle è abbastanza esplicita) ad Apocalypse Now. Ed è bellissimo scoprire come l’animo visionario di Wes riesca ancora a stupire, in un certo senso ad incantare, dopo tanti anni, anche coloro i quali ormai vivono dei suoi film e li aspettano come si aspetta il proprio regalo la mattina di Natale. Dopo Grand Budapest Hotel credevamo di aver visto l’apice di tale maturità registica e, in un certo senso, Isle of Dogs (questo il titolo originale del film) non riesce a folgorarci allo stesso modo, visivamente parlando. E’ solo un modo diverso di raccontare per immagini un mondo…Ecco, Wes Anderson, ancora una volta, riesce nell’impresa di creare un piccolo mondo (dove i cani parlano e i bambini pilotano gli aerei) e renderlo addirittura plausibile, quasi reale nella sua assurdità. Ed è un mondo che facciamo una fatica enorme ad abbandonare.

Fosse anche solo per la poetica che caratterizza la metafora usata dal regista per trattare il tema del razzismo, volendo anche della xenofobia: un’intera popolazione (quella dei cani) lasciata a morire su un’isola abbandonata, nonostante un semplice vaccino fosse in grado di porre fine all’epidemia che era stata la causa (o meglio il pretesto) di quella che ha tutta l’aria di essere una “soluzione finale” (e nel finale ne assume i connotati in tutto e per tutto). Ma questa è solo una parte dell’immenso valore artistico e morale di una pellicola che non sarà perfetta, ma a cui si vuole bene sin dai titoli di testa.

Grazie Wes, ancora una volta…GRAZIE!