Un anno con PlayStation VR
di: Simone CantiniZero aspettative, interesse moderato ma anche tanta curiosità. In fondo era sempre stato un sogno sin da quando ero ragazzo e mi imbattei nei primi prototipi in realtà virtuale di Doom. E sì, la cornice era sempre quella di Lucca Comics and Games, anche se in quegli anni a furoreggiare erano gli avveneristici 486 e parole come HDR, 4K e PlayStation VR sarebbero suonate unicamente come accozzaglie casuali di lettere. Eppure, nonostante le mie magre finanze di imberbe studentello mi costrinsero a compiere la fatale scelta (VHS di un anime o una fugace partitella? Ovviamente vinse la prima opzione), il cruccio di non essermi messo in testa il diabolico ed ingombrante caschetto senza nome mi ha accompagnato imperturbabile fino allo scorso autunno, quando dopo un’ora abbondante di paziente coda sono riuscito a mettere le mani (e la testa) sul futuristico visore Sony. Ed è inutile sottolineare, se mi seguite qua sul Tribe, come sia stato amore a prima vista.
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Futuro prossimo
Un atto di fede, motivato soltanto da alcuni miei personali rumor che volevano la compagnia nipponica credere in maniera massiccia su questo costoso add-on, ma anche un esborso giustificato da quattro prove sul campo di questa stuzzicante tecnologia. Ricordo ancora il primo impatto, quel Farpoint di cui fu impossibile non innamorarsi, e che ho atteso pazientemente al varco finendo per rimanerne pienamente soddisfatto (qua la recensione, giusto per rinfrescare la memoria). Dopo qualche supplica supportata dal mio bel pass stampa, riuscii anche a strappare tre test supplementari, che mi portarono prima a sfrecciare nel cosmo a grazie ad EVE: Valkyrie, poi a sparare a creature spettrali in Until Dawn: Rush of Blood, ed infine a sfrecciare a bordo di uno scalcagnato slittino in VR Luge. Un piccolo assaggio di quel futuro che la succosa line up di lancio lasciava ampiamente sognare, ma che era innegabile come non potesse sfuggire a mille e più dubbi in merito al suo effettivo attecchimento. In fondo il prezzo del PlayStation VR, per quanto altamente concorrenziale rispetto alle allora ben più costose controparti del mondo PC, era comunque elevato e di sicuro una sua massiccia penetrazione all’interno dell’utenza Sony non era del tutto scontata. Ed è davvero difficile negare come in parte l’ottimismo del colosso nipponico fosse sin troppo esagerato, al punto che sono bastate pochissime settimane per assistere ad una revisione al ribasso delle rosee previsioni di vendita. E poi, dopo l’abbuffata iniziale, ci ha pensato anche un periodo di stanca sul versante del software a mitigare anche gli entusiasmi dei più incalliti sostenitori del medium virtuale, complice anche una serie di uscite non certo indimenticabili, più simili a costose tech demo che a prodotti fatti e finiti. Eppure c’era ancora un piccolo barlume di speranza, un sinistro puntino che fu subito elevato al rango di prova del nove definitiva del PlayStation VR: quel Resident Evil 7 che avrebbe accompagnato gli ultimi giorni del gennaio 2017.
Piccole, grandi conquiste
Criticato aspramente dagli integralisti della serie, a causa di quella mai sdoganata visuale in prima persona, il settimo capitolo della saga Capcom può essere visto come il vero punto di svolta di questo primo anno vissuto in virtualità. Era la dimostrazione lampante di come un simile mezzo potesse tranquillamente appoggiarsi ad esperienze ludiche di elevato spessore, titoli corposi e degni dell’appellativo di videogioco, non più sorprendenti esperienze capaci di stupire i neofiti per una manciata scarsa di minuti, prima di venire abbandonati nei meandri delle varie librerie digitali. L’epopea del nostro Ethan, però, non fu foriera unicamente di rose, ma anche latrice di un bel mazzo di spine: adesso la fame di produzioni dello stessa portata era più che mai accentuata, peccato che il settore non si sia dimostrato in grado di reggere tali ritmi produttivi, complice anche la marginale diffusione della periferica. E visto l’esorbitante aumento dei costi realizzativi del software, viene comunque davvero difficile non trovare la forza di giustificare una simile posizione. La stessa Sony, a dispetto di un avvio arrembante e capace di riportare funestamente alla mente episodi sin troppo dolorosi e recenti (PS Vita vi dice nulla?), sembrava quasi essersi messa volontariamente in disparte, limitandosi a stringere accordi con piccoli studi indipendenti. Le uscite interessanti non sono mancate, vedi Mervils, Statik o Psychonauts, ma si trattava comunque di prodotti volutamente minori, non certo in grado di poter sorreggere sulle proprie spalle il futuro della periferica. Finché non arrivò lui, quel Farpoint da me lungamente atteso, che fu capace di spazzare in un attimo le mie perplessità in merito alla bontà dell’acquisto: un FPS vero, esaltante, forse un po’ troppo old school, ma così dannatamente unico ed innovativo all’interno della ludoteca del PlayStation VR. Un nuovo ed importante tassello che fu in grado di sdoganare in maniera inequivocabile un genere ritenuto sin troppo ostico da riproporre in virtualità. Ovvio, non mancavano certo i compromessi, ma la sensazione di trovarsi al cospetto di un qualcosa a suo modo rivoluzionario (grazie anche alla fisicità del PlayStation Aim) era palpabile. E da quel momento ci volle un attimo prima che la solitamente sonnacchiosa estate finisse per trasformarsi in uno dei momenti più caldi, in tutti i sensi, per la ludoteca virtuale, grazie a produzioni di assoluto valore come Superhot, Arizona Sunshine o Dino Frontier. Certo, l’alone di produzioni castrate sotto certi aspetti era ancora avvertibile, ma era altresì innegabile l’inversione di tendenza rispetto ai titoli riempitivi che sino ad allora, puntuali ad ogni aggiornamento dello store, si erano affacciati sul mercato.
Cento di questi software!
E ridendo e scherzando, dopo l’immancabile saliscendi tra alti e bassi qualitativi, PlayStation VR si è appena apprestato a spegnere con rinnovato entusiasmo, ma anche con corroborata fiducia, la sua prima candelina. Difficile, difatti, non essere ottimisti se si lancia uno sguardo alla line up che ci attende in questi ultimi mesi dell’anno, che tra un Raw Data, uno Skyrim VR, un The Impatient e un GT Sport (ed altra roba ci attende, come ha pensato bene di ricordarci Sony giusto qualche giorno fa), sembra promettere un intrattenimento a 360°. A patto di non essere ancora volutamente refrattari alla tecnologia, che in questo caso anche la promessa che porta il nome di Ace Combat può vedere erroneamente ridimensionata la sua portata. È però innegabile come Sony sembri puntare davvero sulla periferica, magari in maniera più defilata di quanto le sue iniziali parole avrebbero potuto far supporre, ma visti i titoli annunciati per il prossimo futuro (tra cui non mancano anche nomi di richiamo) ed una prima revisione hardware che sembra essere stata accolta positivamente in Giappone, i presupposti per una crescita del settore ci sono tutti. Basta solo che non passi il solito e triste ritornello del “non ci sono giochi”, ma quando si vogliono per forza di cose tenere chiusi gli occhi è davvero difficile rimanere colpiti dalle possibilità offerte dalla realtà virtuale.