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Effetto Revival 006: Silent Hill

Solo, immerso in un diafano mare di nebbia. La radio che porto in tasca che gracchia debolmente. Ancora un passo e la porta si fa sempre più vicina. Il rumore di scariche elettrostatiche si fa più insistente. Il fascio luminoso della torcia che stringo in mano traballa lievemente, facendo danzare le ombre che mi avvolgono. Adesso quel gracidio metallico si è fatto insopportabile. Un sibilo, un tonfo sordo dietro di me. Correre, devo mettermi a correre se voglio salvarmi. Quando mai avrà fine questo incubo?

di: Simone Cantini

Solo, immerso in un diafano mare di nebbia. La radio che porto in tasca che gracchia debolmente. Ancora un passo e la porta si fa sempre più vicina. Il rumore di scariche elettrostatiche si fa più insistente. Il fascio luminoso della torcia che stringo in mano traballa lievemente, facendo danzare le ombre che mi avvolgono. Adesso quel gracidio metallico si è fatto insopportabile. Un sibilo, un tonfo sordo dietro di me.
Correre, devo mettermi a correre se voglio salvarmi. Quando mai avrà fine questo incubo?

Perduti nella nebbia

Anno 1996, il genere survival horror era tornato prepotentemente alla ribalta grazie all’immortale ed indimenticabile Resident Evil. I videogiocatori del periodo non riuscirono a resistere alle orrorifiche atmosfere del capolavoro partorito dalla fervida mente di Shinji Mikami, al punto che il titolo riuscì a piazzare milioni di copie in tutto il globo, dando il via ad una serie che, tra alti e bassi, ancora oggi ci tiene compagnia sia sul piccolo che sul grande schermo. L’eco di questo successo non poteva non propagarsi anche all’interno degli uffici delle altre software house che, decise a sfruttare l’onda di meritata popolarità scatenata dal titolo Capcom, decisero di scendere anch’esse in campo proponendo la loro personale (a volte nemmeno troppo) variante sul genere. Di sicuro, l’unica capace di raccogliere e plasmare in maniera dannatamente originale e convincente una simile eredità fu Konami, che nel 1999 sfornò uno dei capolavori massimi mai apparsi sulla defunta PlayStation: stiamo ovviamente parlando dell’indimenticabile Silent Hill.

Con questo titolo, la madre di saghe memorabili come Metal Gear Solid e Castlevania, riuscì a spiazzare tutti i fan del genere, complice un gameplay ed un’atmosfera che si andava distaccando pesantemente dai cliché imposti da Mikami. Sarebbe stato sin troppo semplice proporre alla massa l’ennesimo clone, un prodotto in cui il giocatore era chiamato a falciare quante più mostruosità possibili, complice un arsenale ricco di devastanti armi. Sarebbe stato semplice (come abbiamo già detto) e scontato per chiunque, ma non per Konami.
Era giunto il momento di dire addio ai marines super addestrati che ci avevano accompagnati all’interno di Villa Spencer e lasciare, finalmente, spazio ad un comunissimo, semplice e spaesato uomo qualunque. Questo, infatti, era Harry Mason, il protagonista chiamato ad addentrarsi nelle viscere oscure della spettrale cittadina, un semplice padre di famiglia che, in seguito ad un incidente stradale, si sarebbe ritrovato invischiato in una folle ricerca della figlioletta scomparsa. Ma sebbene le premesse non risultassero decisamente esaltanti (una semplice ricerca? Datemi armi e mostri da sbudellare!), sarebbero bastati soltanto pochi passi per far precipitare il giocatore in un vortice di orrori dal quale sarebbe risultato impossibile uscirne. Il primo vicolo in cui il povero Harry si ritrova a vagare, difatti, è più che sufficiente a spazzare via ogni certezza, a fugare ogni minimo dubbio riguardo la presunta tranquillità di Silent Hill. E poi c’è lei, la vera protagonista di tutto quell’universo da incubo: l’opprimente e onnipresente nebbia. Quello che era nato come un semplice espediente utile a mascherare i limiti computativi della macchina Sony si sarebbe ben presto tramutato in uno dei punti di forza del franchise, un elemento capace di caratterizzare in maniera prepotente ed indelebile la saga. Immersi in quel mare grigiastro ed impalpabile, difatti, era impossibile sentirsi al sicuro, era impossibile ricavarsi anche solo un piccolo rifugio di fortuna: le rassicuranti mura di Villa Spencer, capaci di arginare la follia omicida delle creature assemblate dalla Umbrella Corporation, si erano sgretolate, sostituite da quella silenziosa coltre capace unicamente di celare ma non di arrestare. Impossibile sentirsi al sicuro a Silent Hill. Ogni angolo, incrocio o corridoio poteva tramutarsi improvvisamente in una trappola letale per chiunque fosse stato così incauto da avanzare con spavalda incoscienza, abituato magari a sentire lungo il fianco il rassicurante e freddo metallo di una pistola.

Silence is also a sound

L’unica arma a disposizione del giocatore, adesso, è costituita da una comunissima radio, un piccolo strumento gracchiante capace, grazie ad un sinistro fruscio, di segnalare l’avvicinarsi degli orrori che infestano le strade. Già, i suoni. Akira Yamahoka, lo storico compositore della serie, si rivelò essere un vero valore aggiunto per la produzione, grazie ad un certosino lavoro di tessitura sonora, capace di far sobbalzare sulla sedia chiunque, senza che fosse necessario sbattere davanti agli occhi chissà quale abominevole creatura. La paura, adesso, scaturisce dall’ignoto, da ciò che non ci è dato conoscere apertamente, ma soltanto immaginare. L’orrore aveva cessato di essere fisico, concreto, materiale, lontano anni luce dal terrificante arrivo dei cani mutanti che accompagnarono i primi passi condotti all’interno di Villa Spencer. Silent Hill smette di far leva sul visivo, lasciando il terreno ad un orrore psicologico, un orrore scaturito dalla coscienza insita all’interno del binomio avatar-giocatore. Emblematica, in questo senso, è la frase pronunciata da Vincent nel terzo capitolo della serie: Mostri? È così che li vedi, come dei mostri? Non ti preoccupare… è soltanto uno scherzo.
In questa semplice frase è racchiusa tutta l’essenza della cittadina sorta sulle sponde del lago Toluca, un luogo diabolico, capace di rendere tangibile la parte più buia dell’animo di chiunque osi attraversarla. E non è un caso che tutti i protagonisti dei vari episodi siano personaggi tormentati, interpreti di un passato oscuro che, simile ad una dantesca punizione, sono pronti ad esigere un sacrificio affinché possano trovare la redenzione. Harry, James, Heather, Henry, Alex e Travis, questi i nomi di coloro che saremo di volta in volta chiamati a controllare, sono tutte personalità schiacciate dal peso di un’esistenza tutt’altro che perfetta, personalità a cui il destino deciderà di fornire una seconda opportunità attraverso Silent Hill. La città sarà capace di mettere a nudo le loro anime, obbligandoli ad affrontare i propri fantasmi, adesso non più eteree manifestazioni ultraterrene, bensì letali e concrete aberrazioni. L’esito dei loro percorsi, però, sarà tutt’altro che scontato dato che il riuscire a sfruttare appieno l’opportunità che il fato ha deciso di offrirgli risiederà nella loro possibilità di scegliere come meglio affrontare gli incubi che si celano nelle profondità del loro ego. Tutto questo si tradurrà, in brutali termini di gameplay, nella comparsa dei tanto osannati finali multipli, finali che saranno determinati dal comportamento che i nostri antieroi andranno a tenere nel corso della loro avventura. Ed è in questo che la produzione Konami riesce ad annoverare un ulteriore punto di forza, in questa capacità di unire indissolubilmente le vicende del player e del suo alter-ego digitale: la sorte della loro anima è legata strettamente a ciò che noi suggeriremo alla nostra controparte, fattore che riesce ad amplificare esponenzialmente la capacità di immedesimazione garantita dal gioco.

Mille volti della stessa città

Nel corso degli anni, mano mano che nuovi episodi popolavano gli scaffali dei rivenditori di tutto il globo, la città di Silent Hill andava srotolando la sua mappa ai piedi dei giocatori, aggiungendo di volta in volta nuovi tasselli al proprio nebbioso ed intricato mosaico. Strade in passato impercorribili, edifici saldamente sprangati, luoghi soltanto accennati sono riusciti ad assumere una consistenza digitale all’interno di ciascun capitolo della saga. Ma questo mutamento della geografica ludica è andato ad impattare anche sull’evoluzione del gameplay, un’evoluzione che viene sempre più, spesso a torto, richiesta a gran voce dalla comunità dei player. Dopo quella che può essere considerata come la prima età della serie, coincidente con Silent Hill 1-2-3, Konami ha iniziato ad intraprendere un percorso volto a rinnovare e svecchiare un insieme di meccaniche che iniziavano ad andare strette ai fan dell’innovazione a tutti i costi. E questa voglia di rinnovamento, questo desiderio di rendere palese il desiderio di distaccarsi dai classici canoni che avevano sino ad allora felicemente imbrigliato le dinamiche della serie, è evidente già a partire dal titolo che accompagna la produzione datata 2004: addio Silent Hill 4 e benvenuto Silent Hill: The Room.

In un periodo che stava vedendo la prepotente escalation del genere FPS anche su console, Konami decise di prendere spunto dalla caratteristica più macroscopica del genere (ovvero la visuale in prima persona), nel tentativo di calarla efficacemente all’interno del suo contenitore di orrori, di modo da rendere più forte il meccanismo di immedesimazione instaurato tra giocatore e avatar. La stanza citata nel sottotitolo della quarta incarnazione del franchise, difatti, viene vissuta da questo binomio attraverso gli occhi del protagonista, fattore che sarebbe servito ad eliminare il primo, basilare filtro utile a separare gli orrori digitali dal deus ex machina in carne ed ossa. A mutare fu anche l’approccio esplorativo, che adesso andava a negare ogni possibilità di libera esplorazione (presente, seppur in forma limitata nei precedenti episodi), proponendo di volta in volta una serie di tappe obbligate. Ma fu un altro lo stravolgimento che più di tutti andò a colpire uno degli elementi che aveva contribuito a delineare la vincente atmosfera misteriosa del titolo: per la prima volta dal 1999 l’inquietante rumore emesso dalla fida radio aveva cessato di propagarsi nell’aria nebbiosa. Che dire? Tutti coloro che avevano ardentemente bramato una rivoluzione erano stati accontentati. Purtroppo il videogiocatore, si sa, è un cliente difficile da soddisfare, proprio per questo l’esigente folla gridò allo scandalo, sbandierando in lungo e in largo il proprio malcontento e sostenendo con disarmante nonchalance come la saga fosse stata brutalmente snaturata.

Per Konami era giunto il momento di rimboccarsi nuovamente le maniche, nel tentativo di assecondare le instabili richieste del popolo degli innovatori. E lo fece imboccando una duplice strada: se da un lato (su PSP e in seguito PS2) con Origins decise di riportare indietro le lancette dell’orologio, realizzando un prequel squisitamente vicino ai meccanismi originali, dall’altro vide bene di strizzare un occhio alla componente action che aveva iniziato a serpeggiare tra le pieghe del quarto Resident Evil, il tutto attraverso il primo titolo dedicato espressamente alle macchine in alta definizione. Homecoming, pur mantenendo gli aspetti esplorativi e interattivi più classici, mise per la prima volta in mano al giocatore un protagonista tutt’altro che indifeso, capace di mettere a tacere i propri incubi anche a suon di pugni. Attraverso Alex Shepherd, Konami sceglie deliberatamente di portare su di un piano fisico la lotta interiore che da sempre ha caratterizzato l’animo dei viaggiatori chiamati ad attraversare Silent Hill: adesso sono definitivamente scomparsi i momenti di fuga disperata e le pause dedicate alla risoluzione di enigmi, tutto per lasciare spazio ad una ben più banale e inutile violenza. Nonostante conservi ancora tutto il suo fascino maledetto, Silent Hill viene spogliata dell’orrore raffinato ed inesorabile che l’aveva caratterizzata sin dai suoi esordi, finendo con il perdere il suo eccellente ruolo da protagonista, solo per divenire un blando e quasi sin troppo inopportuno comprimario.
Un ulteriore tentativo di riscrittura positiva della saga, forse dovuto all’utenza della macchina su cui è stato inizialmente chiamato a girare, è costituito da Silent Hill: Shattered Memories, titolo rilasciato nel 2009 su Nintendo Wii (e in seguito convertito su PSP e PS2).

In quello che possiamo considerare come un reboot della saga, Konami pare attingere a piene mani (ancora una volta) dalla pingue fucina di idee chiamata Capcom, più precisamente rimescolando abilmente il gameplay visto nel non troppo conosciuto Haunting Ground, il quale può essere a sua volta considerato come lo spirituale successore della saga di Clock Tower. L’Harry Mason che in Shattered Memories siamo richiamati a controllare ricorda molto da vicino Fiona Belli, la vulnerabile protagonista della produzione Capcom, ha adesso perso tutto il suo potenziale offensivo, trovandosi realmente confinato nei panni di un uomo comune, incapace di far fronte agli orrori che popolano la cittadina: l’unica arma a sua disposizione è la fuga, la sua sola speranza di sopravvivenza è costituita dalla sua velocità. L’orrore non è più un nemico che può essere semplicemente sconfitto con la forza, può solo essere aggirato, allontanato, ma mai definitivamente cancellato dalla propria esistenza. Proprio come Silent Hill, la nebbiosa cittadina capace di rendere tangibili le infinite sfaccettature oscure dell’animo umano.

C’è ancora spazio per la paura?

Alla luce di tutto ciò, spiace constatare come la serie, nonostante l’indubbia bontà del materiale in mano a Konami, spinta da un insano e quanto mai inconcepibile desiderio di rinnovamento, ha visto scemare la propria qualità complessiva con il passare degli anni, dato che sono mano mano venute a mancare tutte quelle caratteristiche che avevano contribuito al successo planetario della saga. Purtroppo l’imperante deriva action che da qualche anno a questa parte, simile ad un subdolo virus creato dalla Umbrella Corporation, ha iniziato a contaminare ogni produzione digitale, ha finito con lo snaturare progressivamente l’oramai familiare orrore che serpeggiava tra le strade di Silent Hill, finendo con l’avvicinare uno degli ultimi (se non forse l’unico) e più geniali baluardi del genere survival horror ad un banale e scontato run and gun.
Riuscirà l’imminente ottavo capitolo, l’inquietante (almeno sulla carta) Downpour, a riportare quella provincia nebbiosa agli oscuri fasti che più gli sono consoni? La radio continua a gracchiare sempre più forte: l’orrore si avvicina. Sapere se saremo in grado di tenergli testa semplicemente colpendolo più forte di quanto possa fare lui è solo una questione di tempo.