Tre manifesti a Ebbing, Missouri – Di rabbia, odio e risate
di: ZamveleDevo essere sincero: questo 2018, a livello cinematografico, si è aperto nel migliore dei modi. E non solo perché hanno messo la Dark Polo Gang in un film di Antonio Albanese. E’ appena uscito, infatti, Tre manifesti a Ebbing, Missouri (Three Billboards Outside Ebbing, Missouri) – da qui in poi, Manifesti, il nuovo film di Martin McDonagh, con Frances McDormand, Sam Rockwell (tutti e tre premiati ai Golden Globe nelle varie categorie, anche se McDonagh per le sceneggiatura), Woody Harrelson (che Dio lo benedica sempre) e Peter Dinklage con dei bellissimi baffi da pornoattore degli anni ’70. Ah, e per cinque minuti Samara Weaving, ovvero la mia cotta del mese.
Manifesti, come dice il titolo, ruota attorno all’affissione di tre manifesti pubblicitari, da parte di Mildred (McDormand), per denunciare il lassismo e l’incompetenza della polizia di Ebbing riguardo lo stupro e l’omicidio brutale della figlia. In particolare, per Mildred gran parte della colpa è riconducibile al capo della polizia (Harrelson), che oltre a permettere al suo vice (Rockwell) di torturare dei neri a caso, ha fatto ben poco. Ovviamente, la situazione degenera piuttosto velocemente, in una spirale di odio, rabbia e vendetta.
La grandezza e importanza di Manifesti sta nel riuscire a tenere due discorsi: uno di attualità, sulla situazione degli Stati Uniti, sulla violenza di certi luoghi con i suoi tabù e le sue segregazioni (l’Ebbing, Missouri, del titolo sta lì proprio a precisare una simile connotazione); e un altro, invece, di respiro molto più universale, sulla rabbia e l’odio che generano solo altro odio. Questi due discorsi, lungi dal cedere al moralismo e al film-pamphlet, vengono portati avanti attraverso la regola del mostrare anziché dire. McDonagh spesso, infatti, mette al centro della sua narrazione la storia, i suoi personaggi, il dolore e la rabbia di Mildred, ma anche della polizia, e lascia che tutte le tematiche emergano in modo naturale.
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La centralità dei personaggi, il non ridurli a semplice macchiette ideologiche, si rispecchia anche nella regia, concentrata costantemente sulle loro espressioni e sui loro corpi – veramente ottimo è il lavoro di tutti gli attori a questo proposito. McDonagh non soffoca mai lo spettatore, non si butta mai all’inseguimento dei suoi personaggi, si tiene vicino, ma non attaccato. La sua vuole essere una vicinanza empatica, ma mai voyeuristica del loro dolore o della loro rabbia.
Se dovessi scegliere due emozioni per sintetizzare Manifesti, sceglierei probabilmente la rabbia e le risate – le risate sono un’emozione? Diciamo di sì per stavolta. Manifesti è, infatti, un film in cui si ride molto e spesso, nonostante la sua durezza. Sul perché questo succeda, le considerazioni da fare sono tre:
Uno, l’ambivalenza della risata, come nel discorso che faceva Pirandello della vecchia imbellettata.
Due, il fatto che, come mi disse la mia ex poco prima di mollarmi, il mio senso dell’umorismo non è poi così buono come penso;
E che tre, soprattutto, Manifesti è un film sulla rabbia e sull’odio, e su come sia necessario spezzare questa catena. In questo aspetto è un film profondamente shakespeariano, con la sua condanna senza se e senza ma della vendetta. La rabbia e la vendetta, sia per Shakespeare, come per esempio nel Tito Andronico o nell’Amleto, che a Ebbing, nell’escalation di violenza fra Mildred e il vice-sceriffo, sono dei mostri che accecano l’uomo. L’umorismo serve quindi a rompere, anche solo per un istante, il tempo di una risata, amara e dolorosa quanto si vuole, ma pur sempre una risata, questa spirale. Ridere ci tira fuori dal mostro che siamo diventati.
Ci rende di nuovo umani e ci permette, magari, se siamo fortunati, di provare a condividere la nostra spremuta con quello che ci ha defenestrati.