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Recensione di Splatterhouse

Recensione di Splatterhouse di Console Tribe

di: Giovanni Manca
“Buongiorno”
“Salve signora, come posso aiutarla?”
“Un chilo di tagliata di manzo e due chili di salsiccia ben stagionata”
“Mi dispiace ma è tutto finito signora”
“Come finito! Tutto questo sangue in giro, ma che macelleria è questa?”
“Ci sono molte macellerie da queste parti, migliori della nostra, è facile trovarle…”

Lo ammettiamo, ok, il prologo è abbastanza grottesco ma vi assicuriamo che sintetizza perfettamente il titolo che andremo ad analizzare in questa recensione. Il protagonista è Splatterhouse, il remake di un notissimo videogame sviluppato da Namco nel 1988 che salì alla ribalta per la sua estrema violenza e scene sanguinolente, davvero eccezionali, nel vero senso del termine, per l’epoca. Namco Bandai ha deciso di riproporre il brand sulle console in alta definizione dopo l’interruzione della serie nel lontano 1993, decidendo di non tradire l’origine della denominazione che porta, puntando tutto sull’azione frenetica condita da tanto, tanto splatter. Basterà questo nel 2010 ad accontentare vecchi e nuovi fan? Andiamo a vedere.

La maschera del terrore

Prima di impugnare e maltrattare il pad, soffermiamoci qualche riga su quella che è la trama del titolo. Rick apre a fatica gli occhi, trovandosi sommerso in un lago di sangue. La sua ferita è grave, non lascia speranze. Tutta colpa del tranello mortale del Dr.West, professore di Necrobiology: il colloquio a casa sua era una scusa per rapire la fidanzata di Rick, Jennifer, e sbarazzarsi di quest’ultimo. Rick sta morendo. Una voce però lo desta dall’oblio: davanti ai suoi occhi una maschera misteriosa lo chiama, promettendogli potere e vendetta. Rick indossa la maschera del terrore: dolori lancinanti lo portano a trasformarsi in un mostro dalle fattezze umanoidi, dotato di una forza innaturale, schiavo di Satana. Inizia la caccia al Dr.West.
Trattandosi di un remake e non di un sequel, la trama non poteva allontanarsi di molto da quella scritta nell’ormai lontano 1988, epoca in cui i titoli action, ed in particolare in un picchiaduro a scorrimento, non brillavano certo per il plot narrativo ma giocavano tutte le loro carte sulla frenesia del gameplay e la realizzazione tecnica. Come accennato più su, Splatterhouse 2010 fa un grosso salto indietro nel tempo anche da questo punto di vista, inciampando più volte e sbattendo pesantemente la faccia: la narrazione e la sceneggiatura, nel loro complesso, risultano quanto di più scontato, privo di colpi di scena e poco originale si sia visto negli ultimi anni di produzione videoludica.

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Ma, del resto, Namco Bandai punta tutto sul divertimento e sulla spettacolarità, che ci importa della trama! Splatterhouse evolve l’antenato, portandolo, ovviamente, dall’impostazione bi-dimensionale a quella tridimensionale, lasciando comunque inalterato l’approccio in game: era un beat ‘em up a scorrimento e tale è rimasto. La mappatura del joypad è piuttosto comune a quella sperimentata in altri giochi dello stesso genere: salto, attacco normale, attacco potente, presa, parata e schivata; nel 2010 Splatterhouse aggiunge l’irrinunciabile capacità di “assorbimento”: se in molti illustri predecessori i protagonisti avevano la capacità di catturare le anime dei nemici sconfitti, Rick invece succhierà il loro sangue, in modo tale da migliorare e potenziare le sue capacità e la sua forza. Non solo, raccogliere litri di sangue è fondamentale per rimpinguare l’energia vitale del protagonista; proprio quest’ultima caratteristica mette in luce la prima delle tante magagne del titolo Namco: in qualsiasi situazione intricata e pericolosa si trovi Rick, circondato da decine di nemici piuttosto che da un boss di fine livello, è in grado di “congelare” l’azione e rinvigorirsi in relazione alla quantità di sangue raccolta. Facile trarre conclusioni: in un titolo in cui il sangue scorre a fiumi, Rick è quasi immortale il che fa il pari con una difficoltà di gioco davvero irrisoria, qualunque sia il livello, dei tre disponibili, selezionato. L’intelligenza dei numerosi nemici sullo schermo e la varietà delle loro strategie e mosse, è davvero elementare, e rende qualsiasi approccio tattico del player al gioco davvero inutile: Splatterhouse diventa ben presto il festival del button mashing più ignorante, in cui si prosegue senza difficoltà premendo velocemente i pulsanti di attacco senza tanta parsimonia. Far ricorso alla parata, piuttosto che alle prese o ai colpi speciali, diventa più un esercizio di stile che una tecnica di gioco e solo nei livelli più avanzati diventa molto utile la schivata: attacco, schivata, attacco, ricarica energia, il gioco è tutto qua. L’inferno sul pad dettato dal gameplay e dal livello di sfida ridotto ai minimi termini, quasi fa passare inosservata una delle novità più interessanti proposte da Splatterhouse: le finishing moves, le esecuzioni finali dei nemici ormai ad un passo dal baratro. La visuale zooma su Rick pronto a eseguire la mossa sul malcapitato mostro e il giocatore deve muovere i due stick analogici nella direzione indicata su schermo. Attenzione, si tratta di una novità per Splatterhouse, non certo per il genere dei videogame a cui appartiene, popolato da decine di titoli che fanno ricorso a questa tecnica in modo molto più spettacolare ed utile, basti pensare, giusto per rimanere al 2010, al favoloso God Of War 3 e Dante’s Inferno; in Splatterhouse, si premono talmente in fretta i pulsanti di attacco che spesso si elimina il nemico prima di capire che è possibile eseguire l’esecuzione finale.
In qualsiasi momento del gioco, è possibile accedere alla schermata da cui si gestiscono i vari potenziamenti: come detto più su, saranno i litri di sangue la moneta di scambio per aumentare velocità, forza, prese, armi, energia e la maschera. Al confronto con illustri esponenti del genere action, Splatterhouse impallidisce anche da questo punto di vista, sia per la varietà dei potenziamenti sia per l’utilità degli stessi, vincendo, forse, solo per la quantità di sangue. Una delle poche note positive, è la possibilità di sbloccare lo Splatterhouse del 1988: diciamo la verità, positivo solo per i vecchi fan, visto che il ricordo del vecchio titolo è molto meglio della realtà.
Se la modalità “storia” non brilla certo per longevità e livello di sfida, qualcosa di meglio propone la modalità arena. Anche in questo caso si tratta di una modalità di gioco vista e rivista in una pletora di titoli sconfinata ma in un gioco piuttosto mediocre come Splatterhouse tutto fa brodo. In questa circostanza il button mashing si fa più raffinato, dal momento che il giocatore è costretto a gestire la propria energia con molta più attenzione se nutre l’ambizione di arrivare al termine; la tecnica di gioco passerà dunque, rispetto alla modalità “storia”, dalla frenetica pressione di due o tre pulsanti al massimo, ad un ricorso sempre più attento della parata e della schivata.

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Rosso scarlatto

La storia dietro lo sviluppo di Splatterhouse 2010 è contraddistinta da vicende piuttosto sfortunate che sembrano aver condizionato la realizzazione tecnica del gioco stesso: inizialmente affidato al team BottleRocke, Namco Bandai decise nel 2009 di affidare il progetto ad un team interno, spiegando che la decisione era stata imposta dalla qualità del lavoro fatto fino a quel momento. Dopo averci giocato, pensiamo che se Namco avesse lasciato lo sviluppo del gioco al team originario, difficilmente avrebbe fatto peggio. Il motore grafico, finché su schermo non si muove nulla, sembra ricco di poligoni contraddistinti da texture molto dettagliate; purtroppo non parliamo di fotografia ma di videogame, e il motore grafico zoppica pesantemente fin dalle prime schermate e non ci riferiamo alle situazioni in cui ci sono nemici in ogni dove e schizza sangue dappertutto, ma a semplici movimenti della visuale di gioco o negli spostamenti di Rick da una locazione all’altra. Oltre ai cali di frame paurosi e ingiustificati, la visuale ci mette del suo perdendo in molte circostanze il centro nevralgico dell’azione e la palette cromatica conclude il pessimo lavoro a causa della scarsissima varietà. Una nota positiva, alcune cut scene realizzate in computer grafica sono di alto livello ma questo, ovviamente, costituisce un timidissimo palliativo alla terrificante sensazione di mediocrità. Su discreto livello invece la colonna sonora e i dialoghi in lingua inglese.

La Maschera della Vergogna

Abbiamo sempre apprezzato il rispetto per il passato, lo sforzo e il coraggio delle software house di riproporre vecchi miti videoludici ma, con Splatterhouse, Namco Bandai deve fare i conti con una realizzazione tecnica davvero indecente e un gameplay che fa addirittura peggio. Splatterhouse può divertire non più di cinque minuti solo i super appassionati dei button mashing più splatter.
Namco, il sangue non basta.