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Recensione Recensione di Call of Juarez: The Cartel

Recensione di Call of Juarez: The Cartel di Console Tribe

di: Simone "PulpGuy88" Bravi

Il west è più lontano che mai. Quei territori selvaggi in cui vigeva la legge del più spietato, e che si basavano su principi non scritti di onore e rispetto, non ci sono più. I duelli ora sono fra le strade di fredde metropoli, dove gli spacciatori di droga e le armi automatiche sono gli elementi predominanti di un paesaggio fatto di cemento e pallottole.
La serie Call of Juarez giunge al terzo capitolo con The Cartel e ci catapulta dalla frontiera a Los Angeles, in una visione moderna del western, certo molto meno affascinante, ma per niente meno violenta. Ancora una volta dovremo lasciarci alle spalle cadaveri e distruzione.

Il passato che non vuole andarsene

La storia raccontata dai ragazzi di Techland vede Mendoza, un narcotrafficante ex marine degli Stati Uniti, mettere a ferro e fuoco la città degli angeli, stringendo amicizie pericolose con i cartelli della droga che dominano la città. La polizia locale non può fare molto tra agenti corrotti ed eserciti di spacciatori sul piede di guerra. L’ultima risorsa del paese è una squadra speciale che da sola dovrà sgominare le gang criminali per arrivare al pesce grosso. Nella squadra troveremo il solito discendente della famiglia McCall, Benjamin, un burbero agente di polizia in cerca di vendetta per i suoi colleghi caduti sul campo a causa di Mendoza, suo vecchio compagno d’armi tra l’altro. Eddie Guerra, agente della DEA indebitato fino al collo con degli spacciatori che lo tengono nel taschino. Infine Kimberly Evans, affascinante agente dell’F.B.I., con un fratello invischiato nel traffico della droga, combattuta tra il lavoro e la sua famiglia.

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La trama purtroppo è alquanto inflazionata e raccontata con estrema leggerezza, non proponendo mai veri momenti di interesse o dialoghi all’altezza della situazione. I personaggi non godono di una caratterizzazione esaustiva per entrare nel cuore del giocatore. Per fortuna le diverse situazioni in cui si trovano renderanno più vario lo sviluppo della trama a seconda di quale agente sceglieremo per affrontare la campagna: nei panni di Guerra dovremo rubare dei soldi dai luoghi delle indagini, sabotare i carichi di droga delle gang rivali per far contenti i nostri aguzzini. Impersonando Kimberly, invece, potrà capitare di dover far sparire delle prove per coprire suo fratello e così via. Il tutto ovviamente senza farci vedere dai propri compagni, per evitare di destare sospetti sulla nostra integrità. Va comunque precisato che il finale non cambierà in base al personaggio scelto.

L’involuzione della specie

Nessuno dei due precedenti capitoli della serie proponeva un gameplay simulativo, ma comunque il tutto si manteneva su ottimi livelli sia di sfida che di divertimento. In The Cartel la giocabilità sembra aver subito una vera e propria regressione sotto ogni punto di vista. Partiamo dal pessimo feeling delle armi. L’arsenale molto classico – per non dire banale – si compone di un numero abbastanza consistente di bocche da fuoco, peccato che ognuna di esse risulti totalmente anonima: rinculo inesistente, danni assolutamente casuali (nonostante le indicazioni delle statistiche) e tempi di ricarica pressoché identici. Il tutto sfocia in sparatorie esaltanti quanto un libro di algebra, con una giocabilità inficiata persino dal pessimo sistema di copertura: basterà infatti avvicinarsi a una qualsiasi superficie per accostarcisi contro, tutto assolutamente normale se non fosse che saremo totalmente ed inspiegabilmente inabilitati a sporgerci per sparare, essendo costretti ad uscire dalla copertura per svolgere questa basilare operazione. Il sistema, inoltre, ci ostacolerà non poco nelle situazioni più concitate, dove dovremo muoverci spesso tra i vari elementi dello scenario. L’I.A. di nemici e compagni è su livelli veramente infimi: i nostri antagonisti non saranno che dei bersagli mobili che, di tanto in tanto, avranno l’accortezza di mettersi al riparo, mentre i nostri soci non faranno che sparare colpi a caso, non riuscendo ad abbattere un bersaglio nemmeno per errore. Il tutto si risolverà quindi in un continuo avanzare (praticamente in solitaria) in livelli lineari, dal design desolante e per giunta di modestissime proporzioni, sparando a tutto ciò che si muove. Saranno all’incirca sei ore di pura noia e completa assenza di idee.

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L’unica variabile è rappresentata, come dicevamo in precedenza, dagli incarichi secondari diversi per ogni personaggio. Il tutto comunque si esaurirà in pochi secondi, durante le missioni principali, andando verso il punto di interesse indicato e premendo il tasto azione senza farci vedere dai compagni; il classico esempio di un’intuizione intelligente realizzata in maniera insignificante.
Tornano le discretamente divertenti fasi in bullett time da eseguire in coppia, soltanto non saranno più affascinanti come un tempo, merito anche dell’atmosfera completamente anonima che permea il titolo. Anche la concentration mode, che nel capitolo precedente funzionava similmente al Dead Eye di Red Dead Redemption, è stata sostituita da un anonimo bullet time (che si ricaricherà uccidendo nemici in sequenza) che rallenterà il tempo per qualche istante, permettendoci di uccidere qualsiasi nemico in totale scioltezza.
Chiudono il quadro di un gameplay disastroso, delle fasi di guida totalmente inutili (nonchè irritanti a causa della legnosità dei controlli) e un sistema di crescita e sblocco delle armi talmente basilare da non riuscire ad aggiungere praticamente nulla di particolarmente interessante. Il tutto si attesta su livelli così imbarazzanti, che ci si chiede cosa sia accaduto ai ragazzi di Techland per indurli a combinare un simile disastro dopo due ottimi prequel.

Armiamoci e partiamo

Il gioco ci permette fortunatamente di affrontare la poco avvincente campagna principale anche in cooperativa con altri due giocatori, sia online che in locale. In tal caso si riesce a trovare qualche momento di divertimento ma niente che possa realmente impegnare i tre giocatori a cooperare tra di loro per completare le (brevi) sedici missioni disponibili.
Una volta avviata la lobby multiplayer ci ritroveremo o al distretto di polizia o nel covo di una gang, a seconda di quale fazione abbiamo scelto.
Da qui potremo esercitarci al poligono, avviare una partita veloce o una personalizzata. La poca affluenza di utenti rende il matchmaking alquanto lento, tuttavia la pochezza del comparto multigiocatore di The Cartel vi scoraggerà presto dal parteciparvi. 
Una sola modalità che vede opposti guardie e poliziotti in un deathmatch a squadre in cui, a intervalli regolari, ci verrà chiesto di proteggere un membro della vostra squadra o ucciderne uno di quella rivale.
Un netcode ballerino non aiuta certo lo svolgimento delle partite che a loro volta avranno luogo in mappe inspiegabilmente enormi, causando dispersione del team e precludendo qualsiasi possibilità di imbastire una qualsivoglia strategia di squadra.

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Un pugno nell’occhio

Nel periodo storico (videoludicamente parlando) in cui ci troviamo oggi, descrivere il comparto tecnico di questo gioco è un vero problema. E’ un problema perché non ci sono motivi logici per concepire nel 2011, e con in circolazione giochi come Crysis 2 e Killzone 3, un titolo tecnicamente così scadente. La cosa più assurda è rappresentata dal fatto che Bound in Blood, uscito ormai più di tre anni fa, è ancora oggi infinitamente superiore a The Cartel. Texture piattissime, per la maggior parte in bassa definizione, modelli poligonali provenienti da una generazione precedente ed effetti speciali degni del peggior film di serie B a basso costo. Non pervenuta l’interazione ambientale (se si escludono gli ormai classici barili esplosivi) ne, tanto meno, un’abbozzo di sistema di illuminazione. Persino il frame rate, che pur non deve muovere chissà quale mole poligonale, subisce dei clamorosi arresti (esatto, non rallentamenti) anche nelle fasi meno movimentate, lavorando praticamente contro il giocatore durante l’azione, visto che la fluidità va letteralmente a farsi benedire, rendendo il titolo ingiocabile. Tearing, un massiccio pop-up e problemi pachidermici del vertical sync chiudono il sipario su questo scempio. Comparto audio anch’esso da dimenticare: tra musiche insignificanti ed effetti sonori totalmente monotoni, si salva soltanto l’ottimo doppiaggio in italiano, supportato incredibilmente anche da una discreta sincronizzazione labiale.

Al peggio non c’è mai fine

Techland ha centrato un gigantesco, clamoroso ed immotivato buco nell’acqua. Call of Juarez: The Cartel non solo si è rivelato peggiore dei suoi ben più anziani predecessori, ma ne stravolge (rovinandola) anche la strepitosa atmosfera western che li caratterizzava. Piattezza assoluta nella narrazione, personaggi insignificanti ed un gameplay che fa acqua da tutte le parti. Persino il multiplayer è stato spogliato di qualsivoglia aspetto attrattivo, confinandolo ad un ruolo meno che marginale. Il vergognoso comparto tecnico non rappresenta che il sale sulla ferita di un titolo che non soltanto mediocre, ma è anche uno degli shooter più brutti degli ultimi anni. Sul serio.