Recensioni

Amnesia: Rebirth

di: Simone Cantini

Quando sei responsabile di una delle riscritture più riuscite di un genere come l’horror, è lecito aspettarsi di avere tutti i riflettori puntati addosso una volta annunciato il tuo prossimo lavoro. Ed è quello che, sin dal 2010, capita ai ragazzi di Frictional Games, che grazie al loro Amnesia: The Dark Descent riuscirono a cambiare in maniera marcata le radicate meccaniche di questa categoria videoludica che appariva, oramai, un po’ troppo stantia. Ripetersi era sicuramente difficile, ma S.O.M.A. è là a dimostrare che il successo del team scandinavo non era certo frutto del caso. Proprio per questo l’annuncio improvviso di Amnesia: Rebirth, aveva scatenato le reazioni più entusiastiche dei fan sparsi per il globo, che non aspettavano altro che tuffarsi nuovamente nell’oscurità.

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Ombre sulla sabbia

Protagonista di Amnesia: Rebirth è Anastasie “Tasi” Trianon, una archeologa francese che, nel 1937, si trova a sorvolare il deserto algerino in compagnia del marito Salim e dei membri di una spedizione alla quale si è aggregata. Come nel più classico degli incipit, però, il volo non si svolge come previsto, ed in seguito ad un misterioso evento il velivolo finisce per schiantarsi al suolo. Tasi si risveglia improvvisamente all’interno della carcassa metallica, sola ed in preda al dolore, con il solo suono della radio a svegliarla dal torpore. Sono sufficienti pochi istanti per ritrovarsi sperduti nel bel mezzo della distesa di sabbia, in cerca della salvezza e del resto dei membri della spedizione. Niente di nuovo, è proprio il caso di dirlo, sotto il sole, ma a dispetto di un ritmo non certo impeccabile, l’incipit di Amnesia: Rebirth non può che tenere desta l’attenzione dei giocatori: perché Tasi sembra aver già visitato i vari luoghi? Che cosa era la luce vista fuori dal finestrino prima dello schianto? E cosa si cela nell’oscurità che avvolge gli anfratti e le costruzioni disseminate nel deserto? Sono tutte domande utili a creare un contesto di suspance quanto mai riuscito e palpabile, che finisce per sposarsi alla perfezione con le meccaniche legate al buio che furono in grado di fare la fortuna del team oramai 10 anni or sono. Peccato, però, che una volta giunti ad uno dei tre finali disponibili dopo circa 8 ore, il tutto finisca per crollare in maniera a tratti un po’ troppo ingenua, perdendo per strada alcuni pezzi del racconto che, in ultima analisi, pur presentando alcuni momenti sicuramente riusciti ed alcune tematiche del tutto inedite e particolari per il gaming, risulta essere un netto passo indietro rispetto all’eccellenza sperimentata con S.O.M.A., titolo capace di sorprendere veramente in quanto a sviluppo e conclusione. I limiti narrativi di Amnesia: Rebirth risiedono, inoltre, nel non riuscire mai a creare un rapporto empatico con Tasi ed il resto del cast, con la prima che vede il proprio passato raccontato solo per mezzo di alcuni brevi flashback presenti durante i caricamenti, mentre ai secondi arriviamo unicamente tramite i documenti che è possibile reperire in-game: un po’ poco per alimentare il senso di urgenza che la sceneggiatura vorrebbe suggerire. Questa narrazione laterale, che ho sempre trovato estremamente gradevole e convincente, finisce irrimediabilmente per essere fiaccata anche dal gameplay stesso della produzione che, proprio a causa di alcune scelte di puro game design, finisce per rimanere a tratti in secondo piano.

Problemi di coesione

Sul versante del gameplay, Amnesia: Rebirth si incunea in maniera prepotente lungo il solco tracciato nel 2010 dagli stessi ragazzi di Frictional, riproponendone in toto le meccaniche. Ci troviamo, pertanto, al cospetto di un walking simulator/survival horror in prima persona, durante il quale saremo chiamati a risolvere alcuni enigmi ambientali, oltre che a sopravvivere ad alcuni sparuti incontri con creature poco raccomandabili. Se riguardo ai primi c’è poco da dire, se non che in un paio di casi li ho trovati alquanto forzati e fuori contesto, sui secondi confesso che mi sarei aspettato molto di più, soprattutto se parliamo del team che ha inventato questo tipo di approccio delle minacce. Al solito non potremo combattere, ma solo fuggire e nasconderci, peccato però che ci troveremo a farlo quasi sempre in ambienti angusti ed oscuri, in cui orientarsi sarà un vero calvario. Non giova, poi, il fatto che essere catturati non causerà il game over, ma anzi in certe situazioni risulterà anche un vantaggio, dato che una volta ripresa conoscenza ci troveremo oltre il punto che eravamo chiamati a superare, oppure assisteremo alla scomparsa dell’entità che ci stava braccando. Questa confusione concettuale si nota anche nella citata meccanica dell’oscurità: come nel titolo originale, anche in Amnesia: Rebirth rimanere troppo al buio andrà ad intaccare la nostra sanità, con conseguente comparsa di allucinazioni visive e sonore che, se trascurate, ci porteranno a svenire e ritornare al checkpoint precedente. L’unico modo per ovviare a ciò sarà quello di utilizzare i cerini e, da un certo punto, la lampada ad olio in possesso di Tasi: peccato però che i primi durino accesi per un paio di secondi, mentre l’altra consumi carburante come un Barney Gumble all’Oktoberfest. Questa situazione finisce anche per rendere indispensabile un’oculata gestione delle risorse, elemento che però sacrifica in modo sensibile l’esplorazione, utile per i completisti e per scovare tutti i documenti. Ad acuire la farraginosità del tutto, inoltre, troviamo la scelta inconcepibile di non permettere a Tasi di raccogliere le torce e le lampade (da accendere sprecando fiammiferi) di cui il gioco è ricolmo: una scelta che va ad intaccare in modo marcato la sospensione dell’incredulità. Si tratta di pecche che, unite ad altre meccaniche appena abbozzate, come la necessità di ripararsi dal sole a cui si accenna unicamente nell’incipit, restituiscono l’impressione di un lavoro a tratti non troppo coeso, figlio magari di uno sviluppo assai travagliato e che ha portato a correzioni della direzione in corso d’opera. A tenere in piedi tutto, pertanto, troviamo l’ottima atmosfera generale, che soprattutto nelle sezioni algerine (non dico altro per non incorrere in spoiler) riesce a trasmettere un senso di inquietudine ed abbandono davvero efficace. In tal senso è davvero difficile non applaudire al lavoro svolto in fase di doppiaggio, con Tasi che gode di una potenza espressiva davvero dirompente, capace di superare abbondantemente i citati limiti di scrittura. Il consiglio, poi, è quello di giocare il tutto con un home theater (oppure un buon paio di cuffie), per potersi gustare a dovere l’eccellente effettistica e la colonna sonora. Tecnicamente parlando, invece, non ci troviamo di fronte a niente di epocale, ma il tutto funziona comunque alla perfezione, con la piccola chicca degli occhi di Tasi che si abituano poco a poco alle tenebre, permettendoci di orientarci un minimo anche nell’oscurità più totale.

Amnesia: Rebirth segna il ritorno di un brand atteso da 10 anni, ma che sembra arrivare sugli schermi fuori tempo massimo. Se in origine la portata delle intuizioni di Frictional Games era sicuramente di estremo spessore, il ritrovarsi dopo tutto questo tempo al cospetto di un lavoro che sembra rimasto immobile nel tempo lascia davvero con l’amaro in bocca. L’avventura di Tasi, difatti, risulta a tratti ingessata, poco coesa nelle meccaniche e, soprattutto, non sorretta da una scrittura in grado di rivaleggiare con S.O.M.A., a mio avviso il capolavoro del team, e che risulta anche azzoppata dalla natura del gameplay stesso. Sicuramente intrigante nelle sue premesse, pur comunque partendo da un incipit non troppo originale, Amnesia: Rebirth non riesce a mantenere altro il ritmo per tutta la durata dell’avventura, alternando sparute parti ben costruite a numerosi, e dolorosi, colpi a vuoto.