TV Recensione

Altered Carbon – La prima serie scritta da un algoritmo

di: Zamvele

Secondo me, l’algoritmo di Netflix, stanco di essere usato solamente per consigliare (malamente) cosa vedere, ha deciso di fare il grande salto e dare sfogo alle sue fisime artistiche: è nato così Altered Carbon.

In un futuro distopico, la coscienza viene scaricata su un dischetto, così se il corpo (non a caso chiamato custodia) muore, può essere passato a un altro. Takeshi… No, scusate, non ce la faccio, già a scrivere la trama sento la noia soffocarmi. Vi incollo qua quella ufficiale di Netflix e via: “Risvegliatosi in un nuovo corpo 250 anni dopo la sua morte, Takeshi Kovacs scopre di essere stato resuscitato per aiutare un magnate a risolvere il suo stesso omicidio”. Stiamo nell’avanguardia narrativa, non trovate?

Tutto in Altered Carbon è costruito per essere godibile, interessante, fighetto. E’ così privo di umanità che si fatica veramente a credere che Laeta Kalogridis sia una persona vera e non lo pseudonimo che ha scelto l’Algoritmo perché non siamo ancora pronti a una serie scritta da una macchina. Il problema, infatti, non è tanto la mancanza di originalità a qualsiasi livello. Quello, in fondo, è accettabile, nessuno pretende che ogni serie sia una serie di rottura. Altered Carbon si nutre da una parte prepotentemente dell’immaginario sci-fi di Blade Runner per quanto riguarda la scenografia (e quando dico nutre prepotentemente intendo dire che hanno preso i personaggi di Altered Carbon e li hanno buttati dentro la Los Angeles di Blade Runner cambiandogli giusto il nome), e dall’altra attinge altrettanto voracemente dal noir, con la sua descrizione di una città corrotta, le indagini, la femme fatale. Che, in effetti, a scriverlo mi rendo conto che è di nuovo praticamente Blade Runner.

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Comunque, come dicevo, in fondo l’aderenza a un particolare genere non è un problema. Anzi, certe volte è anche auspicabile la voglia di non voler essere la Serie Definitiva. Peccato che Altered Carbon questa pretesa ce l’abbia eccome. D’altronde per avere autoconsapevolezza di quello che si sta raccontando, sarebbe necessario avere un minimo di umanità. Altered Carbon urla continuamente quanto sia fighetta, quanto sia cool il suo immaginario, quanto sia profonda. E, per carità, i temi su cui essere profonda ce li avrebbe pure: la dicotomia morte-immortalità; la società ultra-capitalistica dove chi è ricco ha sconfitto la morte e il povero ne è ancora più schiavo; la dualità corpo-mente. Solo che in Altered Carbon sono approfondite tanto quanto io che ve le sto spiattellando qua. Però, oh, potrete dire ai vostri amici “ho visto ‘sta serie fighissima, con una fotografia della Madonna, che parla della dualità fra corpo e mente”. Al 90% la risposta, però, è la stessa che si ha davanti a Altered Carbon: sì, ma anche sticazzi.

Se, infatti, già tutte le svolte, le evoluzioni sono prevedibili, togliendo di fatto ogni possibile suspance – al massimo, inizialmente, uno pensa che stiano cercando di depistarci, ma no, le cose andranno proprio come pensiamo -, l’unico fattore di interesse sono i personaggi, il possibile attaccamento che proviamo per loro. Solo che nessuno, nemmeno Takeshi e la detective Ortega, che dovrebbero essere i protagonisti, suscitano la minima simpatia o interesse umano. Li si accetta così come si accetta passivamente, così come si accetta passivamente ogni svolta narrativa. L’unico personaggio minimamente simpatico è Poe, l’intelligenza artificiale dell’hotel. Ma d’altronde, è pur sempre una serie scritta da un Algoritmo. Tra l’altro, a una certa ci sta una specie di storyline mezza incestuosa o che so io che viene trattata con una freddezza e una mancanza di qualsiasi fascino, pur morboso, che potrebbe star benissimo trattando della quotazione in borsa dei bond.

Altered Carbon, insomma, è una serie a cui manca qualsiasi mordente o interesse, ma che è assolutamente priva di consapevolezza di esserlo e anzi, vuole spacciarsi per qualcosa di grande, bello e profondo, pensata per essere gradevole e piacevole, esteticamente curatissima, ma al contempo senza alcun guizzo di regia o originalità, riuscendo perfino a tradire le proprie poche premesse, dove l’aderenza al noir viene sacrificata per un happy ending tanto noioso quanto gratuito.