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Recensione Sekiro: Shadows Die Twice

di: Simone Cantini

Avevo un calendario appeso in casa. Niente di particolare, uno di quelli tristi ed anche abbastanza anonimi che, da oltre 500 anni, la banca per cui lavoro è solita regalare ogni anno ai propri sottoposti. Avevo un calendario, anche se tendevo per lo più ad ignorarlo. Anche perché, diciamocelo, con un cellulare sempre sotto mano, chi ha bisogno ancora oggi di uno di questi oggetti, buoni solo a ricordarti il susseguirsi dei giorni e, talvolta, a riempirsi di scritte riguardo scadenze e simili. Avevo un calendario, come forse avrete già capito, ma ora non più, perché per colpa di Sekiro: Shadows Die Twice, tutti i santi indicati sulle sue pagine giallognole hanno finito per incendiarsi senza possibilità di ritorno.

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Giocarsi il paradiso

Lo scrivo con estrema franchezza, oltre che senza alcuna vergogna: arrivare ad impaginare questa recensione è stato il risultato di un percorso estremamente complesso ed ostico, senza dubbio il più difficoltoso della mia decennale presenza tra le penne di Console Tribe. Che sia un fan dei cosiddetti soulslike non è certo un mistero, visto che sin dal debutto di Demon’s Souls non sono più riuscito a resistere al loro diabolico fascino, ma nonostante abbia inanellato un corposo numero di ore assieme a simili prodotti, mai mi ero trovato a sacramentare come con Sekiro: Shadows Die Twice. Ed è per questo motivo, unito all’aver ricevuto la mia copia review all’indomani del day one, che la mia personale analisi arriva un po’ in ritardo, ma ho ritenuto giusto prendermi tutto il tempo necessario, per non cadere nel facile tranello della superficialità dovuta all’inaspettata frustrazione. L’ultimo lavoro di From Software, difatti, è caratterizzato da una difficoltà semplicemente mostruosa, indubbiamente la più elevata mai sperimentata all’interno di un soulslike, con la quale va a braccetto un sistema di progressione del nostro personaggio non proprio amichevole. Nonostante vi riteniate veterani, dunque, badate bene di non sottovalutare l’avventura di Lupo, uno shinobi al servizio del giovane lord Kuro, che ha giurato di proteggere a costo della vita: siamo in piena epoca Sengoku, uno dei periodi più turbolenti della storia feudale del Giappone, riscritto in modo stilisticamente eccellente dal celebre studio nipponico. La storia, che non intendo spoilerare per nessun motivo, viene stavolta narrata in modo finalmente esplicito, grazie ad un corposo (se paragonato al solito) set di dialoghi, cinematiche efficaci ed una leggibilità che finalmente non necessità delle più astruse interpretazioni. Le differenze con il passato dello studio, però, non si fermano qua, ma vanno anche ad abbracciare la caratterizzazione del protagonista, adesso fisso ed immutabile e che va quindi a sostituire l’estrema personalizzazione delle varie build a cui la saga Souls ci ha da sempre abituato: gli attributi Lupo sono, difatti, prestabiliti e soggetti ad un sistema di potenziamento alquanto limitato e stringato, che ci vedrà aumentare le tre caratteristiche base solo eliminando i vari boss presenti nel gioco. Dite, quindi, addio al farming selvaggio, ultima speranza del giocatore disperato ed incapace di superare il devastante nemico di turno. L’unico modo che avremo per avanzare risiederà nella nostra abilità, dato che ci troveremo sempre e costantemente sottolivellati al cospetto dei nemici più ostici del gioco. E questa è una delle criticità più macroscopiche di Sekiro: Shadows Die Twice, che soprattutto nella prima metà del gioco evidenzia un bilanciamento non proprio ottimale della progressione, a causa di alcuni picchi di difficoltà talvolta alquanto gratuiti ed inutilmente frustranti, che ci porteranno a scontrarci con nemici in gradi di oneshottarci al primo errore commesso. Il che, visti i trascorsi di From Software, è alquanto inspiegabile, visto che nonostante la durezza delle esperienze passate, i margini di manovra del giocatore erano decisamente più ampi. Si tratta di una quindicina di ore circa, in grado di spiazzare anche il più fanatico del genere, che si ritroverà a ripetere decine e decine di volte un singolo combattimento, magari soltanto perché ha scelto la frazione di secondo sbagliata per agire. E scordatevi anche di chiamare in aiuto qualche altro giocatore mosso da spirito altruistico, data la natura unicamente single player dell’esperienza: sarete solo voi e le sadiche routine comportamentali sviluppate da Miyazaki e compagni. A rendere più ostica questa progressione iniziale ci pensa anche un level design che sembra voler fare di tutto per eleminarci il prima possibile, vista la presenza ravvicinata di boss e miniboss, che sacrificano in parte l’esplorazione e le uccisioni più “leggere”.

Try, try, try

La differenza più macroscopica che intercorre tra Sekiro: Shadows Die Twice ed i suoi predecessori, però, è da ritrovare nel combat system sviluppato per l’occasione che, oltre a sancire l’abbandono della amata/odiata barra della stamina, si è visto arricchito della possibilità di saltare, sfruttare un rampino e le armi alloggiate nel braccio meccanico di Lupo. Il primo di questi elementi, invero quasi un’eresia per i soulslike, vuole che adesso potremo colpire ad oltranza gli avversari, senza doverci preoccupare di dosare le forze. Non è comunque tutto oro quello che luccica, visto che Miyazaki ha pensato bene di non rendere le cose inutilmente scontate: i combattimenti di Sekiro: Shadows Die Twice ruotano attorno alla rottura della così detta Postura, l’indicatore che accompagna la parata e che, una volta esaurito, lascerà l’avversario di turno in balia di un fendente in grado di ucciderlo all’istante. Il sistema, in verità, non è certo inedito e si ispira in modo marcato a quanto già fatto da Team Ninja con NiOh, anche se From Software non ha certo deciso di limitarsi al compitino. Colpire senza sosta, difatti, potrebbe non bastare a sbilanciare gli avversari, pertanto sarà necessario imparare quanto prima a deflettere i fendenti nemici, sfruttando la parata attivabile tramite il dorsale sinistro. Si tratta dell’equivalente del celebre parry di stampo From Software che, se sfruttato con il giusto tempismo, aprirà la guardia nemica permettendoci di attaccare per qualche secondo senza pensieri. Il sistema, con la dovuta pratica, funziona ma è in parte piagato dalla volontà di Miyazaki di premere forte sul pedale della difficoltà, elemento che rende necessario un tempo di reazione che avvicina lo sfruttamento di questa meccanica quasi ad un QTE che, se sbagliato, potrebbe avere devastanti ripercussioni sulla nostra scarsa vitalità. Ma il designer nipponico, almeno per una volta, ha voluto essere benevolo nei nostri confronti, visto che grazie alla consueta maledizione sanguigna, saremo in grado di risorgere una volta abbattuti, così da proseguire il combattimento, a patto di avere cariche disponibili. Non pensiate, però, che questo possa in qualche modo lenire la difficoltà di cui parlavo sopra, visto che si tratta solo di una rinsecchita carota che va ad accompagnarsi al robusto bastone stretto nelle mani di Sekiro: Shadows Die Twice. Per una volta, quindi, la morte non va ad assumere i devastanti contorni che abbiamo imparato a temere nelle altre produzioni affini, visto che l’impatto anche nei confronti del loot sarà quanto mai marginale: perire definitivamente, difatti, ci priverà (senza possibilità di recupero in loco) soltanto del denaro accumulato, oltre che di parte dei punti esperienza che vanno a rimpinguare una speciale barra che, una volta completata, ci garantirà un punto da spendere all’interno di uno skill tree. La cosa buona è che, una volta incamerato, tale bottino non ci potrà più essere sottratto, a meno che non decidiamo di spenderlo. Si tratta di una concessione coerente con il percorso di crescita previsto da Miyazaki per Lupo, ma che alla fine dei giochi ha finito per privare il tutto di quell’ansia che accompagnava ogni nostro passo nelle altre produzioni del team. Se aggiungiamo a ciò il fatto che, a patto di non essere deceduti troppe volte, gli dei potrebbero giungere in nostro soccorso preservando il nostro tesoretto una volta risorti, ecco che Sekiro: Shadows Die Twice finisce con il perdere parte di quella rigida austerità che ci saremmo aspettati. L’unico impatto marcato sarà sulle relazioni con i vari NPC che, in seguito ad un numero eccessivo di morti, finiranno per ammalarsi, ma che da un certo punto dell’avventura potremo comunque curare senza troppi patimenti.

La via del ninja

Avendo citato il rampino, è inevitabile arrivare a parlare delle protesi ospitate all’interno del braccio artificiale di Lupo, oggetti che dovremo recuperare per i livelli e saranno resi utilizzabili da uno degli NPC presenti nel gioco. Questi gadget forniranno armi e funzionalità di attacco accessorie e sarà possibile, in qualunque momento, switchare tra i tre che avremo scelto di equipaggiare, così da modificare in corso d’opera la nostra capacità bellica. Per quanto potenziabili, per mezzo di materiali e Sen (la valuta di gioco), bisogna riconoscere come la loro caratterizzazione sia alquanto marginale, visto che non andranno ad influire più di tanto sulla progressione ludica che, invero, rimane molto monodimensionale e blindata. L’assenza di equipaggiamenti ed armi che esulino dal nostro abito da shinobi e dalla fida katana, rendono l’approccio generale molto più lineare di quanto non facessero le build degli altri Souls, rendendoci per certi versi schiavi della strada che Miyazaki sembra avere stavolta tracciato per noi. La cosa è quanto mai evidente negli scontri con i boss, in cui l’abuso delle deviazioni diventa talvolta stucchevole, privando questi scontri di quell’alone di leggendaria imprevedibilità che From Software ha saputo farci amare negli anni. Laddove, però, il team sembra essersi felicemente sbizzarrito è nell’approccio alle varie aree di gioco che, grazie al citato rampino, ci permette di esplorare in un modo mai sperimentato prima i vari livelli, ricchi come non mai di percorsi alternativi e segreti da sviscerare, oltre che sorretti da un design sempre magistrale che, proprio per le nostre rinnovate capacità motorie, si sono visti regalare un inaspettato e benvenuto sviluppo verticale. Queste funzionalità vanno a braccetto con la possibilità di approcciarci in modo stealth all’ambiente, così da poter cogliere alle spalle gli avversari ed ucciderli in un istante, a patto di muoverci silenziosamente da bravi ninja quali siamo. Studiare le aree diventa quindi fondamentale, sia per evitare scontri inutili, sia per sgombrare il terreno da fastidiose minacce qualora scegliessimo un approccio più combattivo. Per quanto rozzo e pronto a sfruttare una IA nemica non certo brillante, il sistema stealth funziona alla grande, e riesce a donare un dovuto scossone al gameplay generale, oltre che a fare la felicità di tutti coloro che aspettavano un ritorno in grande stile di Rikimaru e Ayame.

Chi non scatta niente scatti

Giunti a questo punto, parlare del comparto tecnico di Sekiro: Shadows Die Twice sarebbe alquanto pretestuoso, ma sarebbe anche ingiusto non dedicare il dovuto spazio alla consueta maestria che contraddistingue la caratterizzazione stilistica dei ragazzi di From Software: il Giappone immaginato dallo studio di Tokyo, difatti, è reso in maniera convincente ed affascinante, forte di un lavoro di design encomiabile, in cui i topoi della loro geografia (quanto ameranno le lande avvelenate?) sono rielaborati con perizia. Per quanto lontane dalla perfezione, anche le prestazioni generali si attestano su livelli impensabili, e confesso che dopo aver affrontato a mezzo frame al secondo gli infami livelli di Demon’s e Dark Souls, vedere il prode Lupo danzare senza evidenti tentennamenti sulla mia PS4 Pro mi ha davvero commosso nel profondo. Certo, rimangono ancora un po’ di animazioni da rivedere, così come alcune hitbox storicamente sballate, unite ad una telecamera non sempre infallibile, ma nonostante l’engine dimostri tutti i suoi anni, il risultato complessivo è senza dubbio più che soddisfacente. Buono anche il comparto audio che, sebbene sia caratterizzato da un doppiaggio nostrano non ai suoi vertici, consente comunque di optare in qualunque momento per l’emotivamente devastante voice over originale.

La mia avventura in compagnia di Sekiro: Shadows Die Twice ha vissuto due momenti ben distinti, oltre che diametralmente opposti tra loro: ad una prima porzione di gioco che mi ha portato a maledire me stesso ed i From Software tutti, a causa di un bilanciamento iniziale non certo ottimale, ha finito per fare da contraltare una seconda metà in cui il lavoro del team è riuscito a scrollarsi di dosso tutte le proprie incertezze, spalancando davanti ai miei occhi un’esperienza sempre maledettamente difficile, ma meno incline al sadismo gratuito. Ed è proprio all’ombra di questo spiazzante dualismo, che mi sento in dovere di giudicare il nuovo lavoro di Hidetaka Miyazaki che, scegliendo consapevolmente di andare oltre il genere che era riuscito a reinventare, ci ha consegnato un’opera priva di compromessi, oltre che incurante di venire incontro all’incauto player che scelga di avvicinarla. Se da un lato il volersi scrollare di dosso cliché e consuetudini, oramai quasi stantie, rappresenta un’encomiabile voglia di rinnovarsi, lo snellimento forse troppo eccessivo delle meccaniche priva il gameplay di Sekiro: Shadows Die Twice di quelle molteplici sfaccettature che erano state in grado di adattare i Souls agli approcci più disparati. Sotto questo aspetto, l’ultima fatica del team ha risultato per essere decisamente meno incline ad assecondare i giocatori, che in più di un’occasione costringe quasi a sottostare alla sua struttura molto più rigida. Ciò nonostante, e al netto degli elementi stealth esaltanti ma poco rifiniti, Sekiro: Shadows Die Twice ci getta contro con forza il guanto di una sfida d’altri tempi, dannatamente ostica da domare, ma anche così brutalmente appagante.